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ilpascoli testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #
PREFAZIONE
E SU la tomba di mia madre rimangano questi altri canti!... Canti d'uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d'allodole, di rosignoli, di cuculi, d'assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verlette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano. Troppi? Facciano il nido, covino, cantino, volino, amino almen qui, intorno a un sepolcro, poiché la crudele stupidità degli uomini li ha ormai aboliti dalle campagne non più così belle e dal sempre bel cielo d'Italia! E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o sul bianco della gran neve o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c'è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie.
Crescano e fioriscano intorno all'antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo, cesti o stipe) autunnali. Nei luoghi incolti fanno le stipe che fioriscono di primavera, e fanno i cesti, ancor più umili, che fioriscono d'autunno; e la lor fioritura assomiglia. Mettano queste poesie i loro rosei calicetti (che l'inverno poi inaridisce senza farli cadere) intorno alla memoria di mia madre, di mia madre che fu così umile, e pur così forte, sebbene al dolore non sapesse resistere se non poco più di un anno. Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch'ella sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in quache serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati delle Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiava la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all'orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì.
Seguì mio padre. E qui, devo chiedere perdono, anche questa volta, di ricordare il delitto che mi privò di padre e madre e, via via, di fratelli maggiori, e d'ogni felicità e serenità nella vita? No: questa volta non chiedo perdono. Io devo (il lettore comprende) io devo fare quel che faccio. Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo non solo innocente, ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia morisse. E io non voglio. Non voglio che sian morti.
Se poi qualcuna di queste poesie che contengono cose non solo vere ma esatte (e il lettore comprenderà anche qui: certe cose non s'inventano, anche a volere), ispirasse un più acuto ribrezzo del male, io, oh! non me ne terrei io, ma ne benedirei la memoria de' miei cari martiri, per i quali nessuno (nemmeno i loro assassini) soffrì, e che dalla loro fossa rendono anche oggi, per male, bene.
Castelvecchio di Barga, marzo del 1903.
LA POESIA
I
Io sono una lampada ch'arda soave! la lampada, forse, che guarda, pendendo alla fumida trave, la veglia che fila;
e ascolta novelle e ragioni da bocche celate nell'ombra, ai cantoni, là dietro le soffici rócche che albeggiano in fila:
ragioni, novelle, e saluti d'amore, all'orecchio, confusi: gli assidui bisbigli perduti nel sibilo assiduo dei fusi; le vecchie parole sentite da presso con palpiti nuovi, tra il sordo rimastico mite dei bovi:
II
la lampada, forse, che a cena raduna; che sboccia sul bianco, e serena su l'ampia tovaglia sta, luna su prato di neve;
e arride al giocondo convito; poi cenna, d'un tratto, ad un piccolo dito, là, nero tuttor della penna che corre e che beve:
ma lascia nell'ombra, alla mensa, la madre, nel tempo ch'esplora la figlia più grande che pensa guardando il mio raggio d'aurora: rapita nell'aurea mia fiamma non sente lo sguardo tuo vano; già fugge, è già, povera mamma, lontano!
III
Se già non la lampada io sia, che oscilla davanti a una dolce Maria, vivendo dell'umile stilla di cento capanne:
raccolgo l'uguale tributo d'ulivo da tutta la villa, e il saluto del colle sassoso e del rivo sonante di canne:
e incende, il mio raggio, di sera, tra l'ombra di mesta viola, nel ciglio che prega e dispera, la povera lagrima sola; e muore, nei lucidi albori, tremando, il mio pallido raggio, tra cori di vergini e fiori di maggio:
IV
o quella, velata, che al fianco t'addita la donna più bianca del bianco lenzuolo, che in grembo, assopita, matura il tuo seme;
o quella che irraggia una cuna -- la barca che, alzando il fanal di fortuna, nel mare dell'essere varca, si dondola, e geme --;
o quella che illumina tacita tombe profonde -- con visi scarniti di vecchi; tenaci di vergini bionde sorrisi; tua madre!... nell'ombra senz'ore, per te, dal suo triste riposo, congiunge le mani al suo cuore già róso! -
V
Io sono la lampada ch'arde soave! nell'ore più sole e più tarde, nell'ombra più mesta, più grave, più buona, o fratello!
Ch'io penda sul capo a fanciulla che pensa, su madre che prega, su culla che piange, su garrula mensa, su tacito avello;
lontano risplende l'ardore mio casto all'errante che trita notturno, piangendo nel cuore, la pallida via della vita: s'arresta; ma vede il mio raggio, che gli arde nell'anima blando: riprende l'oscuro viaggio cantando.
LA PARTENZA DEL BOSCAIOLO
I
La scure prendi su, Lombardo, da Fiumalbo e Frassinoro! Il vento ha già spiumato il cardo, fruga la tua barba d'oro. Lombardo, prendi su la scure, da Civago e da Cerù: è tempo di passar l'alture: tient'a su! tient'a su! tient'a su!
II
Più fondo scavano le talpe nelle prata in cui già brina. È tempo che tu passi l'Alpe, ché la neve s'avvicina. Le talpe scavano più fondo. Vanno più alte le gru. Fa come queste, e va pel mondo: tient'a su! tient'a su! tient'a su!
III
Per le faggete e l'abetine, dalle fratte e dal ruscello, quel canto suona senza fine, chiaro come un campanello. Per l'abetine e le faggete canta, ogni ora ogni dì più, la cinciallegra, e ti ripete: tient'a su! tient'a su! tient'a su!
IV
Di bosco è come te, la cincia: campa su la macchia anch'essa. Sa che, col verno che comincia, ti finisce la rimessa. La cincia è come te, di bosco: sa che pane non n'hai più. Va dove n'ha rimesso il Tosco: tient'a su! tient'a su! tient'a su!
V
Le gemme qua e là col becco picchia: anch'essa è taglialegna. Nel bosco è un picchierellar secco della cincia che t'insegna. Col becco qua e là le gemme picchia al mo' che picchi tu. Va, taglialegna, alle maremme... tient'a su! tient'a su! tient'a su!
VI
Ha il nido qua e là nei buchi d'ischie o d'olmi, ove gli garba; e pensa forse a que' tuoi duchi, grandi, dalla lunga barba. Nei buchi erbiti dove ha il nido, pensa al gran tempo che fu; e getta ancora il vecchio grido: tient'a su! tient'a su! tient'a su!
VII
Un'azza è quella con cui squadri là, nel verno, il pino e il cerro; con cui picchiavano i tuoi padri sopra i grandi elmi di ferro. Tu squadri i tronchi, ora; con l'azza butti le foreste giù. Va ora senza più corazza... tient'a su! tient'a su! tient'a su!
VIII
Rimane nella valle il canto. Sono ormai, le cincie, sole. La scure dei lombardi intanto lassù brilla contro al sole. E sempre il canto che rimane, giunge in alto alla tribù, che parte a guadagnarsi il pane: tient'a su! tient'a su! tient'a su!
L'UCCELLINO AL FREDDO
I
Viene il freddo. Giri per dirlo tu, sgricciolo, intorno le siepi; e sentire fai nel tuo zirlo lo strido di gelo che crepi. Il tuo trillo sembra la brina che sgrigiola, il vetro che incrina... trr trr trr terit tirit...
II
Viene il verno. Nella tua voce c'è il verno tutt'arido e tecco. Tu somigli un guscio di noce, che ruzzola con rumor secco. T'ha insegnato il breve tuo trillo con l'elitre tremule il grillo... trr trr trr terit tirit...
III
Nel tuo verso suona scrio scrio, con piccoli crepiti e stiocchi, il segreto scricchiolettio di quella catasta di ciocchi. Uno scricchiolettio ti parve d'udirvi cercando le larve... trr trr trr terit tirit...
IV
Tutto, intorno, screpola rotto. Tu frulli ad un tetto, ad un vetro. Così rompere odi lì sotto, così screpolare lì dietro. Oh! lì dentro vedi una vecchia che fiacca la stipa e la grecchia... trr trr trr terit tirit...
V
Vedi il lume, vedi la vampa. Tu frulli dal vetro alla fratta. Ecco un tizzo soffia, una stiampa già croscia, una scorza già scatta. Ecco nella grigia casetta l'allegra fiammata scoppietta... trr trr trr terit tirit...
VI
Fuori, in terra, frusciano foglie cadute. Nell'Alpe lontana ce n'è un mucchio grande che accoglie la verde tua palla di lana. Nido verde tra foglie morte, che fanno, ad un soffio più forte... trr trr trr terit tirit...
IL COMPAGNO DEI TAGLIALEGNA
I
Nel bosco, qua e là, lombardi sono taciti al lavoro.
Dall'alba s'ode sino a tardi sci e sci e sci e sci...
È oltre mare l'Alpe loro, mare, donde nasce il dì.
II
A due a due: l'uno tra il vento, l'altro, inginocchiato in faccia.
Da basso il vecchio bianco e scento, in alto la gioventù.
E forza con le forti braccia! Su e giù, e su e giù.
III
Con loro c'è il pittiere solo, ora in terra, ora sul ramo.
Fa un salto, un frullo, un giro, un volo; molleggia, più qui, più lì:
e fa sentire il suo richiamo tra quel sci e sci e sci...
IV
Il Santo aveva da piombare un bel toppo di cipresso.
Maria restava al focolare che dava latte a Gesù.
Ora il pittiere era li presso. Disse il Santo: -- Vien qui tu! --
V
Tuffò la spugna il Santo, ed ecco tinse di sinopia il filo.
-- Un capo tieni tu col becco -- disse al pittiere: -- costì! --
Maria non più dal dolce asilo ora udiva sci... sci... sci...
VI
E' sdipanava col girello, zitto, il filo per la trave.
L'aveva teso già bel bello, stava per batterlo su...
Ma ecco si sentì: AVE! Era Maria con Gesù.
VII
Il pittiere si voltò netto... Torto venne il segno rosso.
La spugna gli gettò nel petto San Giuseppe; e fu così
che, diventato pettirosso, quando sente sci... sci... sci...
VIII
vien sempre, gira intorno al toppo, guarda e frulla, guarda e vola;
ma ora non s'accosta troppo, ch'ora non si fida più:
e col suo canto ti consola, povera esule tribù!
« THE HAMMERLESS GUN »
TO THE CHILDREN PERCY AND VALENTE DE BOSIS
Dunque un hammerless! un... hammerless! (dono del vostro babbo, o Percy, o Valentino; del nostro Adolfo, il sapiente, il buono
simposïarco)... O montanine belle, lo vedrete il maestro di latino! sì, lo vedrete il pedagogo imbelle!
E lungamente mi sorriderete, quando venite ai Vespri a questa Cura di San Nicola. Un hammerless! Sapete? che non ha cani: a triplice chiusura.
« Bello, ma dica: quello del Fusari... »
« Questo è un hammerless! » « Quello non ha cani ». « Questo è inglese! » Ah! inghilese! « Di Field, cari! »
Tacciono: io regno indifferente e cupo. « Codeste selve batterò domani... »
tra me dico, a voce alta. « In bocca al lupo! »
Ecco l'alba (tra selve aride i fossi vanno col fumo di vaporiere), piena d'un tintinnìo di pettirossi, cui risponde un tac tac di capinere...
Su la nebbia che fuma dal sonoro Serchio, leva la Pania alto la fronte nel sereno: un aguzzo blocco d'oro,
su cui piovano petali di rose appassite. Io che l'amo, il vecchio monte, gli parlo ogni alba, e molte dolci cose
gli dico:
LA PANIA
-- O monte, che regni tra il fumo del nembo, e tra il lume degli astri, tu nutri nei poggi il profumo di timi, di mente e mentastri.
Tu pascoli le api, o gigante: tu meni nei borri profondi la piccola greggia ronzante.
Sei grande, sei forte: e dai cavi tuoi massi tu gemi, tu grondi del limpido flutto dei favi.
Sei buono tu, grande tra i grandi: né spregi la nera capanna. Al pio boscaiolo tu mandi sovente la ricca tua manna.
Gli mandi un tuo sciame, che scende giù giù per la valle remota, qual tremulo nuvolo, e splende.
Lo segue un tumulto canoro; ché timpani, cembali, crotali chiamano il nuvolo d'oro. -
Dico: egli ride roseo, ma scorso il suo minuto, ridoventa azzurro e grave. Io scendo lungo il Rio dell'Orso, ne seguo un poco il fievole sussurro.
E me segue un tac tac di capinere, e me segue un tin tin di pettirossi, un zisteretetet di cincie, un rererere
di cardellini. Giungo dove il greto s'allarga, pieno di cespugli rossi di vetrici: il mio luogo alto e segreto.
Giungo: e ne suona qualche frullo, un misto di gridii, pigolii, scampanellii, che cessa a un tratto. L'hammerless m'ha visto un fringuello, che fa: Zitti! sii sii
(sii sii è nella lingua dei fringuelli quello che hush o still, o Percy, in quella di mamma: zitti! tacciano i monelli)...
E sento tellterelltelltelltelltell (sai? tellterelltelltelltell nella favella dei passeri vuol dire come out! fly!
scappa, boy, c'è il babau!)... Dunque più nulla. Silenzio. Odo il ruscello che gorgoglia, e non altro. Il fringuello agile frulla e, lontano, finc finc... Cade una foglia...
Proprio l'ultima (guardo) d'un querciolo secco! È bastato il soffio di quell'ala, è bastata la molla di quel volo:
eccola giù. Mi siedo sopra il greppo. Era come una spoglia di cicala (penso), rimasta a quel non più che un ceppo:
era gialla, era gracile; ma era l'ultima; che più dì, pendula, tenne... Come il povero vecchio ora dispera, vicino al Rio che mormora perenne!
Sono mesto. Perché? Non lo so dire. Intanto, tra le canne, tra la stipa, sento un brusire ed uno squittinire,
che dico? un parlottare piano piano. Ma sì, parlano a me, che dalla ripa tacito ascolto, il mento su la mano.
Sento:
IL PITTIERE
-- Tin tin! anche te? che c'invidi due pippoli e due gremignoli? tin tin, te che piangi sui nidi che pìano pìano soli?
Si viene, tu vedi, da bianche montagne, da boschi d'abeti, con l'ale, puoi credere, stanche.
Si fa questi bruci, che sono nei bussoli e negli scopeti... Sapessi che fame!... Sii buono! --
E poi:
LA CAPINERA
-- Tac tac! anche te? non rammenti le sere di quella tua mesta città? le tue lagrime ardenti? quel canto d'ignota foresta
tra l'onda di tante campane, tanti urli di folla, e tra il sordo fragore di ruote lontane?
Piangevi: e saliva il mio canto, con l'eco d'antico ricordo, col suono di nuovo rimpianto. -
E poi:
L'ALLODOLA
-- Uid uid! anche tu ci fai guerra? tu che ci assomigli pur tanto, col nido tra il grano, per terra, ma sopra le nubi, col canto?
Te rode una cura segreta; tu cerchi l'oblìo de' tuoi mali. Ma sei come tutti, o poeta?
Tu piangi il tuo povero nido per terra... Ma vieni, ma sali, ma lancia nel sole il tuo grido! --
Cara allodola! -- E dopo? -- Dopo? Impugno l'hammerless e... ritorno via. Si rischia d'infreddare: gennaio non è giugno. Tra i ginepri c'è un merlo che mi fischia.
E un forasiepe: -- Eh! tu torni... so dove. Oh! il tuo bel nido, che nemmen ci piove!
NEBBIA
Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e scialba, tu fumo che ancora rampolli, su l'alba, da' lampi notturni e da' crolli d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane, nascondimi quello ch'è morto! Ch'io veda soltanto la siepe dell'orto, la mura ch'ha piene le crepe di valeriane.
Nascondi le cose lontane: le cose son ebbre di pianto! Ch'io veda i due peschi, i due meli, soltanto, che dànno i soavi lor mieli pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane che vogliono ch'ami e che vada! Ch'io veda là solo quel bianco di strada, che un giorno ho da fare tra stanco don don di campane...
Nascondi le cose lontane, nascondile, involale al volo del cuore! Ch'io veda il cipresso là, solo, qui, solo quest'orto, cui presso sonnecchia il mio cane.
I DUE GIROVAGHI
Siamo soli. Bianca l'aria vola come in un mulino. Nella terra solitaria siamo in due, sempre in cammino. Soli i miei, soli i tuoi stracci per le vie. Non altro suono che due gridi: -- Oggi ci sono e doman me ne vo... - Stacci! stacci! Stacci!
Io di qua, battendo i denti, tu di là, pestando i piedi: non ti vedo e tu mi senti; io ti sento, e non mi vedi. Noi gettiamo i nostri urlacci, come cani in abbandono fuor dell'uscio: -- Oggi ci sono e doman me ne vo... - Stacci! stacci! stacci!
Questa terra ha certe porte, che ci s'entra e non se n'esce. È il castello della morte. S'ode qui l'erba che cresce: crescer l'erba e i rosolacci qui, di notte, al tempo buono: ma nient'altro... -- Oggi ci sono e doman me ne vo... - Stacci! stacci! stacci!
C'incontriamo... Io ti derido?! No, compagno nello stento! No, fratello! È un vano grido che gettiamo al freddo vento. Né c'è un viso che s'affacci per dire, Eh! spazzacamino!... per dire, Oh! quel vecchiettino degli stacci... degli stacci!... -- stacci! stacci!
IL BRIVIDO
Mi scosse, e mi corse le vene il ribrezzo. Passata m'è forse rasente, col rezzo dell'ombra sua nera la morte... Com'era?
Veduta vanita, com'ombra di mosca: una ombra infinita, di nuvola fosca che tutto fa sera: la morte... Com'era?
Tremenda e veloce come un uragano che senza una voce dilegua via vano: silenzio e bufera: la morte... Com'era?
Chi vede lei, serra né apre più gli occhi. Lo metton sotterra che niuno lo tocchi, gli chieda -- Com'era? rispondi... com'era? -
L'OR DI NOTTE
Nelle case, dove ancora si ragiona coi vicini presso al fuoco, e già la nuora porta a nanna i suoi bambini, uno in collo e due per mano;
pel camino nero il vento, tra lo scoppiettar dei ciocchi, porta un suono lungo e lento,
tre, poi cinque, sette tocchi, da un paese assai lontano: tre, poi cinque e sette voci, lente e languide, di gente: voci dal borgo alle croci, gente che non ha più niente: -- Fate piano! piano! piano!
Non vogliamo saper nulla: notte? giorno? verno? state? Piano, voi, con quella culla! che non pianga il bimbo... Fate piano! piano! piano! piano!
Non vogliamo ricordare vino e grano, monte e piano, la capanna, il focolare, mamma, bimbi... Fate piano! piano! piano! piano! piano!
NOTTE D'INVERNO
Il Tempo chiamò dalla torre lontana... Che strepito! È un treno là, se non è il fiume che corre.
O notte! Né prima io l'udiva, lo strepito rapido, il pieno fragore di treno che arriva;
sì, quando la voce straniera, di bronzo, me chiese; sì, quando mi venne a trovare ov'io era, squillando squillando nell'oscurità.
Il treno s'appressa... Già sento la querula tromba che geme, là, se non è l'urlo del vento.
E il vento rintrona rimbomba, rimbomba rintrona, ed insieme risuona una querula tromba.
E un'altra, ed un'altra. -- Non essa m'annunzia che giunge? -- io domando. -- Quest'altra! -- Ed il treno s'appressa tremando tremando nell'oscurità.
Sei tu che ritorni. Tra poco ritorni, tu, piccola dama, sul mostro dagli occhi di fuoco.
Hai freddo? paura? C'è un tetto, c'è un cuore, c'è il cuore che t'ama qui! Riameremo. T'aspetto.
Già il treno rallenta, trabalza, sta... Mia giovinezza, t'attendo! Già l'ultimo squillo s'inalza gemendo gemendo nell'oscurità...
E il Tempo lassù dalla torre mi grida ch'è giorno. Risento la tromba e la romba che corre.
Il giorno è coperto di brume. Quel flebile suono è del vento, quel labile tuono è del fiume.
È il fiume ed è il vento, so bene, che vengono vengono, intendo, così come all'anima viene, piangendo piangendo, ciò che se ne va.
LE CIARAMELLE
Udii tra il sonno le ciaramelle, ho udito un suono di ninne nanne. Ci sono in cielo tutte le stelle, ci sono i lumi nelle capanne.
Sono venute dai monti oscuri le ciaramelle senza dir niente; hanno destata ne' suoi tuguri tutta la buona povera gente.
Ognuno è sorto dal suo giaciglio; accende il lume sotto la trave; sanno quei lumi d'ombra e sbadiglio, di cauti passi, di voce grave.
Le pie lucerne brillano intorno, là nella casa, qua su la siepe: sembra la terra, prima di giorno, un piccoletto grande presepe.
Nel cielo azzurro tutte le stelle paion restare come in attesa; ed ecco alzare le ciaramelle il loro dolce suono di chiesa;
suono di chiesa, suono di chiostro, suono di casa, suono di culla, suono di mamma, suono del nostro dolce e passato pianger di nulla.
O ciaramelle degli anni primi, d'avanti il giorno, d'avanti il vero, or che le stelle son là sublimi, conscie del nostro breve mistero;
che non ancora si pensa al pane, che non ancora s'accende il fuoco; prima del grido delle campane fateci dunque piangere un poco.
Non più di nulla, sì di qualcosa, di tante cose! Ma il cuor lo vuole, quel pianto grande che poi riposa, quel gran dolore che poi non duole;
sopra le nuove pene sue vere vuol quei singulti senza ragione: sul suo martòro, sul suo piacere, vuol quelle antiche lagrime buone!
PER SEMPRE!
Io t'odio?!... Non t'amo più, vedi, non t'amo... Ricordi quel giorno? Lontano portavano i piedi un cuor che pensava al ritorno. E dunque tornai... tu non c'eri. Per casa era un'eco dell'ieri, d'un lungo promettere. E meco di te portai sola quell'eco: PER SEMPRE!
Non t'odio. Ma l'eco sommessa di quella infinita promessa vien meco, e mi batte nel cuore col palpito trito dell'ore; mi strilla nel cuore col grido d'implume caduto dal nido: PER SEMPRE!
Non t'amo. Io guardai, col sorriso, nel fiore del molle tuo letto. Ha tutti i tuoi occhi, ma il viso... non tuo. E baciai quel visetto straniero, senz'urto alle vene. Le dissi: « E a me, mi vuoi bene? »
« Sì, tanto! » E i tuoi occhi in me fisse. « Per sempre? » le dissi. Mi disse: « PER SEMPRE! »
Risposi: « Sei bimba e non sai Per sempre che voglia dir mai! »
Rispose: « Non so che vuol dire? Per sempre vuol dire Morire... Sì: addormentarsi la sera: restare così come s'era, PER SEMPRE! »
LA NONNA
Tra tutti quei riccioli al vento, tra tutti quei biondi corimbi, sembrava, quel capo d'argento, dicesse col tremito, bimbi, sì... piccoli, sì...
E i bimbi cercavano in festa, talora, con grido giulivo, le tremule mani e la testa che avevano solo di vivo quel povero sì.
Sì, solo; sì, sempre, dal canto del fuoco, dall'umile trono; sì, per ogni scoppio di pianto, per ogni preghiera: perdono, sì... voglio, sì... sì!
Sì, pure al lettino del bimbo malato... La Morte guardava, La Morte presente in un nimbo... La tremula testa dell'ava diceva sì! sì!
Sì, sempre; sì, solo; le notti lunghissime, altissime! Nera moveva, ai lamenti interrotti, la Morte da un angolo... C'era quel tremulo sì,
quel sì, presso il letto... E sì, prese la nonna, la prese, lasciandole vivere il bimbo. Si tese quel capo in un brivido blando, nell'ultimo sì.
LA CANZONE DELLA GRANATA
I
Ricordi quand'eri saggina, coi penduli grani che il vento scoteva, come una manina di bimbo il sonaglio d'argento?
Cadeva la brina; la pioggia cadeva: passavano uccelli gemendo: tu gracile e roggia tinnivi coi cento ramelli.
Ed oggi non più come ieri tu senti la pioggia e la brina, ma sgrigioli come quand'eri saggina.
II
Restavi negletta nei solchi quand'ogni pannocchia fu colta: te, colsero, quando i bifolchi v'ararono ancora una volta.
Un vecchio ti prese, recise, legò; ti privò della bella semenza tua rossa; e ti mise nell'angolo, ad essere ancella.
E in casa tu resti, in un canto, negletta qui come laggiù; ma niuno è di casa pur quanto sei tu.
III
Se t'odia colui che la trama distende negli alti solai, l'arguta gallina pur t'ama, cui porti la preda che fai.
E t'ama anche senza, ché ai costi ti sbalza, ed i grani t'invola, residui del tempo che fosti saggina, nei campi già sola.
Ma più, gracilando t'aspetta con ciò che in tua vasta rapina le strascichi dalla già netta cucina.
IV
Tu lasci che t'odiino, lasci che t'amino: muta, il tuo giorno, nell'angolo, resti, coi fasci di stecchi che attendono il forno.
Nell'angolo il giorno tu resti, pensosa del canto del gallo; se al bimbo tu già non ti presti, che viene, e ti vuole cavallo.
Riporti, con lui che ti frena, le paglie ch'hai tolte, e ben più; e gioia or n'ha esso; ma pena poi tu.
V
Sei l'umile ancella; ma reggi la casa: tu sgridi a buon'ora, mentre impaziente passeggi, gl'ignavi che dormono ancora.
E quanto tu muovi dal canto, la rondine è ancora nel nido; e quando comincia il suo canto, già ode per casa il tuo strido.
E l'alba il suo cielo rischiara, ma prima lo spruzza e imperlina, così come tu la tua cara casina.
VI
Sei l'umile ancella, ma regni su l'umile casa pulita. Minacci, rimproveri; insegni ch'è bella, se pura, la vita.
Insegni, con l'acre tua cura rodendo la pietra e la creta, che sempre, per essere pura, si logora l'anima lieta.
Insegni, tu sacra ad un rogo non tardo, non bello, che più di ciò che tu mondi, ti logori tu!
LA VOCE
C'è una voce nella mia vita, che avverto nel punto che muore; voce stanca, voce smarrita, col tremito del batticuore:
voce d'una accorsa anelante, che al povero petto s'afferra per dir tante cose e poi tante, ma piena ha la bocca di terra:
tante tante cose che vuole ch'io sappia, ricordi, sì... sì... ma di tante tante parole non sento che un soffio... Zvanî...
Quando avevo tanto bisogno di pane e di compassione, che mangiavo solo nel sogno, svegliandomi al primo boccone;
una notte, su la spalletta del Reno, coperta di neve, dritto e solo (passava in fretta l'acqua brontolando, Si beve?);
dritto e solo, con un gran pianto d'avere a finire così, mi sentii d'un tratto daccanto quel soffio di voce... Zvanî...
Oh! la terra, com'è cattiva! la terra, che amari bocconi! Ma voleva dirmi, io capiva: -- No... no... Di' le devozioni!
Le dicevi con me pian piano, con sempre la voce più bassa: la tua mano nella mia mano: ridille! vedrai che ti passa.
Non far piangere piangere piangere (ancora!) chi tanto soffrì! il tuo pane, prega il tuo angelo che te lo porti... Zvanî... --
Una notte dalle lunghe ore (nel carcere!), che all'improvviso dissi -- Avresti molto dolore, tu, se non t'avessero ucciso,
ora, o babbo! -- che il mio pensiero, dal carcere, con un lamento, vide il babbo nel cimitero, le pie sorelline in convento:
e che agli uomini, la mia vita, volevo lasciargliela lì... risentii la voce smarrita che disse in un soffio... Zvanî...
Oh! la terra come è cattiva! non lascia discorrere, poi! Ma voleva dirmi, io capiva: -- Piuttosto di' un requie per noi!
Non possiamo nel camposanto più prendere sonno un minuto, ché sentiamo struggersi in pianto le bimbe che l'hanno saputo!
Oh! la vita mia che ti diedi per loro, lasciarla vuoi qui? qui, mio figlio? dove non vedi chi uccise tuo padre... Zvanî?... --
Quante volte sei rivenuta nei cupi abbandoni del cuore, voce stanca, voce perduta, col tremito del batticuore:
voce d'una accorsa anelante che ai poveri labbri si tocca per dir tante cose e poi tante; ma piena di terra ha la bocca:
la tua bocca! con i tuoi baci, già tanto accorati a quei dì! a quei dì beati e fugaci che aveva i tuoi baci... Zvanî!...
che m'addormentavano gravi campane col placido canto, e sul capo biondo che amavi, sentivo un tepore di pianto!
che ti lessi negli occhi, ch'erano pieni di pianto, che sono pieni di terra, la preghiera di vivere e d'essere buono!
Ed allora, quasi un comando, no, quasi un compianto, t'uscì la parola che a quando a quando mi dici anche adesso... Zvanî...
IL SOLE E LA LUCERNA
I
In mezzo ad uno scampanare fioco sorse e batté su taciturne case il sole, e trasse d'ogni vetro il fuoco.
C'era ad un vetro tuttavia, rossastro un lumicino. Ed ecco il sol lo invase, lo travolse in un gran folgorìo d'astro.
E disse, il sole: -- Atomo fumido! io guardo, e tu fosti. -- A lui l'umile fiamma: -- Ma questa notte tu non c'eri, o dio; e un malatino vide la sua mamma
alla mia luce, fin che tu sei sorto. Oh! grande sei, ma non ti vede: è morto! --
II
E poi, guizzando appena: -- Chiedeva te! che tosse! voleva te! che pena!
Tu ricordavi al cuore suo le farfalle rosse su le ginestre in fiore!
Io stavo lì da parte... gli rammentavo sere lunghe di veglia e carte piene di righe nere!
stavo velata e trista, per fargli il ben non vista. --
IL CIOCCO
CANTO PRIMO
Il babbo mise un gran ciocco di quercia su la brace; i bicchieri avvinò; sparse il goccino avanzato; e mescé piano piano, perché non croccolasse, il vino. Ma, presa l'aria, egli mesceva andante. E ciascuno ebbe in mano il suo bicchiere, pieno, fuor che i ragazzi; essi, al bicchiere materno, ognuno ne sentiva un dito. Fecero muti i vegliatori il saggio, lodando poi, parlando dei vizzati buoni; ma poi passarono allo strino, quindi all'annata trista e tribolata. E le donne ripresero a filare, con la rócca infilata nel pensiere: tiravano prillavano accoccavano sfacendo i gruppi a or a or coi denti. Come quando nell'umida capanna le magre manze mangiano, e via via, soffiando nella bassa greppia vuota, alzano il muso, e dalla rastrelliera tirano fuori una boccata d'erba; d'erba lupina co' suoi fiori rossi, nel maggio indafarito, ma nel verno, d'arida paglia e tenero guaime; così dalla mannella, ogni momento, nuova tiglia guidata era nel fuso. Io dissi: « Brucia la capanna a gente! »
E i vegliatori, col bicchiere in mano, tutti volsero gli occhi alla finestra, quasi a vedere il lustro della vampa, ad ascoltare il martellare a fuoco, ton ton ton, nella notte insonnolita. Non c'era nella notte altro splendore che di lontane costellazioni, e non c'era altro suono di campana, se non della campana delle nove, che da Barga ripete al campagnolo: -- Dormi, che ti fa bono! bono! bono! -- Non capparone ardeva per le selve, zeppo di fronde aspre dal tramontano; non meta di vincigli di castagno, fatti d'agosto per serbarli al verno; non metato soletto in cui seccasse a un fuoco dolce il dolce pan di legno: sopra le cannaiole le castagne cricchiano, e il rosso fuoco arde nel buio. Al buio il rio mandava un gorgoglìo, come s'uno ci fosse a succhiar l'acqua. Tutto era pace: sotto ogni catasta sornacchiava il suo ghiro rattrappito. In cima al colle un nero metatello fumava appena in mezzo alla Grand'Orsa. Che bruciava?... La quercia, assai vissuta, fu scalzata da molte opre, e fu svelta e giacque morta. Ma la secca scorza, all'acqua e al sole rifiorì di muschi; e un'altra vita brulicò nel legno che intarmoliva: un popolo infinito che ben sapeva l'ordine e la legge, v'impresse i solchi di città ben fatte. E chi faceva nuove case ai nuovi, e chi per tempo rimettea la roba, e chi dentro allevava i dolci figli, e chi portava i cari morti fuori. Quando s'udì l'ingorda sega un giorno rodere rauca torno torno il tronco; e il secco colpo rimbombò del mazzo calato da un ansante ululo d'uomo. E il tronco sodo ora sputava fuori la zeppola d'acciaio con uno sprillo, or la pigliava, e si sentiva allora crepare il legno frangolo, e stioccare le stiglie, or dalla gran forza strappate, ora recise dalla liscia accetta: lucida accetta che alzata a due mani spaccava i ciocchi e ne facea le schiampe. Le schiampe alcuno accatastò; poi altri se le portò nella legnaia opaca. Del popolo infinito era una gente rimasta in un dei ciocchi. Ebbe l'accetta molte case distrutte, ebbe d'un colpo il mazzo molte sue tribù schicciate. Ma i sorvissuti non sapean già nulla: ché volgendo i lor mille anni in un anno, chi schivò l'ascia, chi campò dal mazzo, l'ago sentì, che, dopo un po' che cuce, il Tempo, uggito, punta nel lavoro, e se ne va. Nessuno ora sapeva che il mondo loro fu congiunto al tutto della gran quercia sotto un cielo azzurro. Sapeva ognuno che non c'era altr'aria che quell'odor di mucido, altro suono che il grave gracilar delle galline e il sottile stridìo dei pipistrelli: dei pipistrelli che pendeano a pigne dai cantoni, nel giorno, quando il sole facea passare i fili suoi tra i licci d'una tela che ordiva un vecchio ragno. Così passava la lor cauta vita nell'odoroso tarmolo del ciocco: e chi faceva nuove case ai nuovi, e chi per tempo rimettea la roba, e chi dentro allevava i dolci figli, e chi portava i cari morti fuori. E videro l'incendio ora e la fine i vegliatori: disse ognun la sua. E disse il Biondo, domator del ferro, cui la verde Corsonna ama, e gli scende cantando per le selve allo stendino, e per lui picchia non veduta il maglio: « Vogliono dire ch'hanno tutti i ferri, quanti con sé porta il bottaio, allora ch'è preso a opra avanti la vendemmia: l'aspro saracco, l'avido succhiello, e tenaglie che azzeccano, e rugnare di scabra raspa e scivolar di pialla. Ché non hanno bottega: a giro vanno come il nero magnano, quando passa con quello scampanìo sopra il miccetto; ossia concino, o fradicio ombrellaio, voce del verno, la qual morde il cuore a chi non fece le rimesse a tempo. Né leo leo vanno, come loro. Piglian le gambe e stradano, la vita, come noi, strinta dal grembial di cuoio ». E disse il Topo, portatore in collo, primo, fuor che del Nero; sì, ma questi porta più poco, e brontola incaschito: -- Carico piccolo è che scenta il bosco -: « Vogliono dire ch'han la tiglia soda più che nimo altri che di mattinata porti in monte il cavestro e la bardella. E hanno l'arte, perché intorno al peso girano ora all'avanti ora all'indietro or dalle parti, per entrarci sotto. Se lo possono, via, telano; quando non lo possono, vanno per aiuto; e su e su, per una carraiuola: come una nera fila di muletti di solitari carbonai, su l'Alpe, che in quel silenzio semina i tintinni de' suoi sonagli. Alcuno ecco s'espone, come anco noi, per ragionar con altri che scende, e frescheggiare allo sciurino ». E disse il Menno, vangatore a fondo, a cui la terra, nell'aprir d'aprile, rotta e domata ai piedi ansa e rifiata: e' la sogguarda curvo su l'astile: « Ho inteso dire ch'hanno i suoi poderi, come noi. Sotto le città ben fatte coltano un campo sodo: che bel bello si fa lo scasso, e qua si tira dentro, là si leva la terra, e si tramuta con le pale o valletti e cestinelle. La pareggiano, seminano. Nasce un'erba. Ed ecco poi vanno a pulirla, levano il loglio, scerbano i vecciuli, e scentano la sciàmina, cattiva, e la gramigna, che riè cattiva, e i paternostri, ch'è peggior di tutte. A suo tempo si sega, lega, ammeta, scuote, ventola, spula. Eccolo bello nel bel soppiano dai due godi il grano ». E disse il Bosco, buon pastor di monte, ch'era ad albergo: egli da Pratuscello mena il branco alla Pieve, a quei guamacci: per là dicon guamacci: è il terzo fieno: « Ho inteso dire ch'hanno le sue bestie: quali, pecore, e quali, proprio bestie, ossia da frutto, ovvero anche da groppa. Ma piccoline e verdi queste, e quelle con una lana molle come sputo: pascono in cento un cuccolo di fiore. E il pastore ha due verghe, esso, non una: due, con nodetti, come canne; e molge con esse: le vellìca, e dànno il latte; o chiuse dentro, o fuori, per le prata: come noi, che si molge all'aria aperta, nella statina, le serate lunghe: quando su l'Alpe c'è con noi la luna sola, che passa, e splende sui secchielli, e il poggio rende un odorin che accora ». E disse il Quarra, un capo, uno che molto girò, portando santi e re sul capo, di là dei monti e del sonante mare: ora s'è fermo, e campa a campanello: « Lessi in un libro, ch'hanno contadini come noi; ma non come mezzaiuoli timidi sol del Santo pescatore, e che, d'ottobre, quando uno scasato cerca podere, a lui dice il fringuello: -- Ce n'è, ce n'è, ce n'è, Francesco mio! -- Quelli no, sono negri. Alla lor terra venne un lontano popolo guerriero, che il largo fiume valicò sul ponte. Fecero un ponte: l'uno chiappò l'altro per le gambe, e così tremolò sopra l'acqua una lunga tavola. Fu presa la munita città, presi i fanciulli, ch'or sono schiavi e fanno le faccende; e il vincitore campa a campanello ». E qui la China, madre d'otto figli già sbozzolati, accoccò il filo al fuso, mise il fuso sul legoro, le tiglie si strusciò dalla bocca arida; e disse: « Io l'ho vedute, come fanno ai figli le madri, ossia le balie. Hanno figlioli quasi fasciati dentro un bozzolino. Lo sa la mamma che lì dentro è chiuso il lor begetto, ch'è cicchin cicchino, e dorme, e gli fa freddo e gli fa caldo. Lasciano all'altre le faccende, ed esse altro non fanno che portare il loro furigello ora all'ombra ed ora all'aspro, in collo, come noi; ch'è da vedere come via via lo tengono pulito, come lo fanno dolco con lo sputo; e infine con la bocca aprono il guscio, come a dire, le fasce; e il figliolino n'esce, che va da sé, ma gronchio gronchio ». Così parlando, essi bevean l'arzillo vino, dell'anno. E mille madri in fuga correan pei muschi della scorza arsita, coi figli, e c'era d'ogni intorno il fuoco; e il fuoco le sorbiva con un breve crepito, né quel crepito giungeva al nostro udito, più che l'erme vette d'Appennino e le aguzze Alpi apuane, assise in cerchio, con l'aeree grotte intronate dal cupo urlo del vento, odano lo stridor d'un focherello ch'arde laggiù laggiù forse un villaggio con le sue selve; un punto, un punto rosso or sì or no. Né pur vedea la gente là, che moriva, i mostri dalla ferrea voce e le gigantesse filatrici: i mostri che reggean concavi laghi di sangue ardente, mentre le compagne con moto eterno, tra un fischiar di nembi, mordean le bigie nuvole del cielo. Ma non vedeva il popolo morente gli dei seduti intorno alla sua morte, fatti di lunga oscurità: vedeva, forse in cima all'immensa ombra del nulla, su, su, su, donde rimbombava il tuono della lor voce, nelle occhiute fronti, da un'aurora notturna illuminate, guizzare i lampi e scintillar le stelle. E lo Zi Meo parlò. Disse: « Formiche! L'altr'anno seminai l'erba lupina. Venne la pioggia: non ne nacque un filo. Vennero i soli: il campo parea sodo. Un giorno che v'andai, vidi sul ciglio del poggio un mucchiarello alto di chicchi. Guardai per tutto. Ad ogni poco c'era un mucchiarello. Erano i semi, i semi d'erba lupina. Avean rumato poco? Non un chicco, ch'è un chicco, era rimasto! Aveano fatto, le formiche, appietto! E ben sì che v'avevo anco passato l'erpice a molti denti, e su la staggia, per tutte bene pianeggiar le porche, mi facev'ir di qua di là, come uno fa, nel passaggio, in mezzo all'Oceàno ».
CANTO SECONDO
Ed il ciocco arse, e fu bevuto il vino arzillo, tutto. Io salutai la veglia cupo ronzante, e me ne andai: non solo: m'accompagnava lo Zi Meo salcigno. Era novembre. Già dormiva ognuno, sopra le nuove spoglie di granturco. Non c'era un lume. Ma brillava il cielo d'un infinito riscintillamento. E la Terra fuggiva in una corsa vertiginosa per la molle strada, e rotolava tutta in sé rattratta per la puntura dell'eterno assillo. E rotolando per fuggir lo strale d'acuto fuoco che le ruma in cuore, ella esalava per lo spazio freddo ansimando il suo grave alito azzurro. Così, nel denso fiato della corsa ella vedeva l'iridi degli astri sguazzare, e nella cava ombra del Cosmo ella vedeva brividi da squamme verdi di draghi, e svincoli da fruste rosse d'aurighi, e lampi dalle freccie de' sagittari, e spazzi dalle gemme delle corone, e guizzi dalle corde delle auree lire; e gli occhi dei leoni vigili e i sonnolenti occhi dell'orse. Noi scambiavamo rade le ginocchia sotto le stelle. Ad ogni nostro passo trenta miglia la terra era trascorsa, coi duri monti e le maree sonore. E seco noi riconduceva al Sole, e intorno al Sole essa vedea rotare gli altri prigioni, come lei, nel cielo, di quella fiamma, che con sé li mena. Come le sfingi, fosche atropi ossute, l'acri zanzare e l'esili tignuole, e qualche spolverìo di moscerini, girano intorno una lanterna accesa: una lanterna pendula che oscilla nella mano d'un bimbo: egli perduta la monetina in una landa immensa, la cerca invano per la via che fece e rifà ora singhiozzando al buio: e nessun ode e vede lui, ch'è ombra, ma vede e svede un lume che cammina, né par che vada, e sempre con lui vanno, gravi ronzando intorno a lui, le sfingi: lontan lontano son per tutto il cielo altri lumi che stanno, ombre che vanno, che per meglio vedere alzano in vano verso le solitarie Nebulose l'ardor di Mira e il folgorio di Vega. Così pensavo; e non trovai me stesso più, né l'alta marmorea Pietrapana, sopra un grano di polvere dell'ala della falena che ronzava al lume: dell'ala che in quel punto era nell'ombra; della falena che coi duri monti e col sonoro risciacquar dei mari mille miglia in quel punto era trascorsa. Ed incrociò con la sua via la strada d'un mondo infranto, e nella strada ardeva, come brillante nuvola di fuoco, la polvere del suo lungo passaggio. Ma niuno sa donde venisse, e quanto lontane plaghe già battesse il carro che senza più l'auriga ora sfavilla passando rotto per le vie del Sole. Né sa che cosa carreggiasse intorno ad uno sconosciuto astro di vita, allora forse di su lui cantando i viatori per la via tranquilla; quando urtò, forviò, si spezzò, corse in fumo e fiamme per gli eterei borri, precipitando contro il nostro Sole, versando il suo tesoro oltresolare: stelle; che accese in un attimo e spente, rigano il cielo d'un pensier di luce. Là, dove i mondi sembrano con lenti passi, come concorde immensa mandra, pascere il fior dell'etere pian piano, beati della eternità serena; pieno è di crolli, e per le vie, battute da stelle in fuga, come rossa nube fuma la densa polvere del cielo; e una mischia incessante arde tra il fumo delle rovine, come se Titani aeriformi, agli angoli del Cosmo, l'un l'altro ardendo di ferir, lo spazio fendessero con grandi astri divelti. Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi, fatti più densi dal cader dei mondi, stringan le vene e succhino d'intorno e in sé serrino ogni atomo di vita: quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto gelido oscuro tacito perenne; e il Tutto si confonderà nel Nulla, come il bronzo nel cavo della forma; e più la morte non sarà. Ma il vento freddo che sibilando odo staccare le foglie secche, non sarà più forse, quando si spiccherà l'ultima foglia? E nel silenzio tutto avrà riposo dalle sue morti; e ciò sarà la morte.
Io riguardava il placido universo e il breve incendio che v'ardea da un canto.
Tempo sarà (ma è! poi ch'il veloce immobilmente fiume della vita è nella fonte, sempre, e nella foce), tempo, che persuasa da due dita leggiere, mi si chiuda la pupilla: né però sia la vision finita.
Oh! il cieco io sia che, nella sua tranquilla anima, vede, fin che sa che intorno a lui c'è qualche aperto occhio che brilla!
Così, quand'io, nel nostro breve giorno, guardo, e poi, quasi in ciò che guardo un velo fosse, un'ombra, col lento occhio ritorno
a un guizzo d'ala, a un tremolìo di stelo: qundo a mirar torniamo anche una volta ciò ch'arde in cuore, ciò che brilla in cielo;
noi s'è la buona umanità che ascolta l'esile strido, il subito richiamo, il dubbio della umanità sepolta:
e le risponde: -- Io vivo, sì, viviamo. -
Tempo sarà che tu, Terra, percossa dall'urto d'una vagabonda mole, divampi come una meteora rossa;
e in te scompaia, in te mutata in Sole, morte con vita, come arde e scompare la carta scritta con le sue parole.
Ma forse allora ondeggerà nel Mare del nettare l'azzurra acqua, e la vita verzicherà su l'Appennin lunare.
La vecchia tomba rivivrà, fiorita di ninfèe grandi, e più di noi sereno vedrà la luce il primo Selenita.
Poi, la placida notte, quando il Seno dell'iridi ed il Lago alto e selvaggio dei sogni trema sotto il Sol terreno;
errerà forse, in quell'eremitaggio del Cosmo, alcuno in cerca del mistero; e nello spettro ammirerà d'un raggio
la traccia ignita dell'uman pensiero.
O sarà tempo, che di là, da quella profondità dell'infinito abisso, dove niuno mai vide orma di stella;
un atomo d'un altro atomo scisso in mille nulla, a mezzo il dì, da un canto guardi la Terra come un occhio fisso;
e venga, e sembri come un elianto, la notte, e il giorno, come luna piena; e la Terra alzi il cupo ultimo pianto;
e sotto il nuovo Sole che balena nella notte non più notte, risplenda la Terra, come una deserta arena;
e Sole avanzi contro Sole, e prenda già mezzo il cielo, e come un cielo immenso su noi discenda, e tutto in lui discenda...
Io guardo là dove biancheggia un denso sciame di mondi, quanti atomi a volo sono in un raggio: alla Galassia: e penso:
O Sole, eterno tu non sei -- né solo! -
Anima nostra! fanciulletto mesto! nostro buono malato fanciulletto, che non t'addormi, s'altri non è desto!
felice, se vicina al bianco letto s'indugia la tua madre che conduce la tua manina dalla fronte al petto;
contento almeno, se per te traluce l'uscio da canto, e tu senti il respiro uguale della madre tua che cuce;
il respiro o il sospiro; anche il sospiro; o almeno che tu oda uno in faccende per casa, o almeno per le strade a giro;
o veda almeno un lume che s'accende da lungi, e senta un suono di campane che lento ascende e che dal cielo pende;
almeno un lume, e l'uggiolìo d'un cane: un fioco lume, un debole uggiolìo: un lumicino... Sirio: occhio del Cane
che veglia sopra il limitar di Dio!
Ma se al fine dei tempi entra il silenzio? se tutto nel silenzio entra? la stella della rugiada e l'astro dell'assenzio?
Atair, Algol? se, dopo la procella dell'Universo, lenta cade e i Soli la neve della Eternità cancella?
che poseranno senza mai più voli né mai più urti né mai più faville, fermi per sempre ed in eterno soli!
Una cripta di morti astri, di mille fossili mondi, ove non più risuoni né un appartato gocciolìo di stille;
non fiumi più, di tanti milioni d'esseri, un fiato; non rimanga un moto, delle infinite costellazioni!
Un sepolcreto in cui da sé remoto dorma il gran Tutto, e dalle larghe porte non entri un sogno ad aleggiar nel vuoto
sonno di ciò che fu! -- Questa è la morte! -
Questa, la morte! questa sol, la tomba... se già l'ignoto Spirito non piova con un gran tuono, con una gran romba;
e forse le macerie anco sommuova, e batta a Vega Aldebaran che forse dian, le due selci, la scintilla nuova;
e prenda in mano, e getti alle lor corse, sotto una nuova lampada polare, altri Cigni, altri Aurighi, altre Grand'Orse;
e li getti a cozzare, a naufragare, a seminare dei rottami sparsi del lor naufragio il loro etereo mare;
e li getti a impietrarsi a consumarsi, fermi i lunghi millenni de' millenni nell'impietrarsi, ed in un attimo arsi;
all'infinito lor volo li impenni, anzi no, li abbandoni all'infinita loro caduta: a rimorir perenni:
alla vita alla vita, anzi: alla vita!
Io mi rivolgo al segno del Leone dond'arde il fuoco in che si muta un astro, alle Pleiadi, ai Carri, alle Corone, indifferenti al tacito disastro;
ai tanti Soli, ai Soli bianchi, ai rossi Soli, lucenti appena come crune, ai lor pianeti, ignoti a noi, ma scossi dalla misteriosa ansia comune;
a voi, a voi, girovaghe Comete che sapete le vie del ciel profondo; o Nebulose oscure, a voi che siete granai del cielo, ogni cui grano è un mondo:
di là di voi, di là del firmamento, di là del più lontano ultimo Sole; io grido il lungo fievole lamento d'un fanciulletto che non può, non vuole
dormire! di questa anima fanciulla che non ci vuole, non ci sa morire! che chiuder gli occhi, e non veder più nulla, vuole sotto il chiaror dell'avvenire!
morire, sì; ma che si viva ancora intorno al suo gran sonno, al suo profondo oblìo; per sempre, ov'ella visse un'ora; nella sua casa, nel suo dolce mondo:
anche, se questa Terra arsa, distrutto questo Sole, dall'ultimo sfacelo un astro nuovo emerga, uno, tra tutto il polverìo del nostro vecchio cielo.
Così pensavo: e lo Zi Meo guardando ciò ch'io guardava, mormorò tranquillo: « Stellato fisso: domattina piove ». Era andato alle porche il suo pensiero. Bene egli aveva sementato il grano nella polvere, all'aspro; e San Martino avea tenuta per più dì la pioggia per non scoprire e portar via la seme. Ma era già durata assai la state di San Martino, e facea bono l'acqua. E lo Zi Meo, sicuro di svegliarsi domani al rombo d'una grande acquata, era contento, e andava a riposare, parlando di Chioccetta e di Mercanti, sopra le nuove spoglie di granturco, la cara vita cui nutrisce il pane.
LA TOVAGLIA
Le dicevano: -- Bambina! che tu non lasci mai stesa, dalla sera alla mattina, ma porta dove l'hai presa, la tovaglia bianca, appena ch'è terminata la cena! Bada, che vengono i morti! i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti. Ognuno è tanto mai stanco! E si fermano seduti la notte intorno a quel bianco. Stanno lì sino al domani, col capo tra le due mani, senza che nulla si senta, sotto la lampada spenta. --
È già grande la bambina: la casa regge, e lavora: fa il bucato e la cucina, fa tutto al modo d'allora. Pensa a tutto, ma non pensa a sparecchiare la mensa. Lascia che vengano i morti, i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera, di vento, d'acqua, di neve, lascia ch'entrino da sera, col loro anelito lieve; che alla mensa torno torno riposino fino a giorno, cercando fatti lontani col capo tra le due mani.
Dalla sera alla mattina, cercando cose lontane, stanno fissi, a fronte china, su qualche bricia di pane, e volendo ricordare, bevono lagrime amare. Oh! non ricordano i morti, i cari, i cari suoi morti!
-- Pane, sì... pane si chiama, che noi spezzammo concordi: ricordate?... È tela, a dama: ce n'era tanta: ricordi?... Queste?... Queste sono due, come le vostre e le tue, due nostre lagrime amare cadute nel ricordare! --
LA SCHILLETTA DI CAPRONA
I
Sonata già l'Avemaria dalla chiesa di Caprona, si sente correre via via la schilletta che risòna.
Il poco viene dopo il tanto; come là nella capanna: un pianto ancora, un po' di pianto, dopo tanta ninnananna!
II
Un'ombra va col tintinnìo di quel vecchio campanello; e l'ombra passa lungo il rio, gira il piccolo castello,
si ferma un poco ad ogni soglia, come vuole ancor quel primo che non si sa chi fu, che voglia; ch'era Nimo, il vecchio Nimo.
III
Fu quando non c'era la fonte, né la chiesa né il becchino. Il suo muletto cadde in monte; gli lasciò solo il bronzino,
che avea maravigliato i botri e le polle col suo canto, quand'egli andava a su con gli otri, al Saltello, al Lago Santo.
IV
Al suon di questo che, le notti, nell'immobile abetina squillava tra i silenzi rotti dal crocchiar di qualche pina,
che su gli abissi senza voce mise il suo dondolìo blando; ognuno fa il segno di croce che si fa pericolando.
V
O vecchio, o nostro vecchio buono, or ci sono due campane; ma quel tuo piccoletto suono nel castello tuo rimane.
O Nimo, o nostro vecchio Nimo! or c'è un doppio bello e grave; ma tu per noi sei stato il primo a dirci Ave! Ave! Ave!
VI
E noi l'amiamo, il tuo bronzino, che ci mandi, quando imbruna: lo mandi per un fanciullino: io lo vidi a un po' di luna.
A un raggio pallido lo vidi: è un ragazzo ch'hai, là, teco: un garzonetto che ti guidi, perché forse tu sei cieco.
VII
Lo mandi a noi su la sericcia, che si chiudono le porte: ha i piedi scalzi, ma scalpiccia sopra tante foglie morte;
non parla, ma passando in fretta sgrolla qualche secco ramo; per farci udir la tua schilletta prima che ci addormentiamo.
IL PRIMO CANTORE
I
Il primo a cantare d'amore chi è? Non si vede un boccio di fiore, non ancora un albero ha mosso; la calta sola e il titimalo verdeggia su l'acqua del fosso: e tu già canti, o saltimpalo, sicceccè... sicceccè...
II
Un ramo non c'è, con due frasche, per te! Brulli sono meli e marasche; forse il mandorlo ha imbottonato: tu nella vigna sur un palo, tu sul palancato d'un prato, d'amore canti, o saltimpalo, sicceccè... sicceccè...
III
Hai fretta di fare il tuo nido... perché? Per un prato gira il tuo grido, porti a un prato radiche e pappi: non rischi dunque che sul calo del verno si vanghi e si zappi! Eppure gridi, o saltimpalo, sicceccè... sicceccè...
IV
Hai fretta, sei savio, sai bene perché! Viene il maggio, subito viene la frullana grande che taglia... Frulla, o falce! Forti su l'ali, dal nido di musco e di paglia, frullano i nuovi saltimpali... sicceccè... sicceccè...
LA CAPINERA
Il tempo si cambia: stasera vuol l'acqua venire a ruscelli. L'annunzia la capinera tra li àlbatri e li avornielli: tac tac.
Non mettere, o bionda mammina, ai bimbi i vestiti da fuori. Restate, che l'acqua è vicina: udite tra i pini e gli allori: tac tac.
Anch'essa nel tiepido nido s'alleva i suoi quattro piccini: per questo ripete il suo grido, guardando il suo nido di crini: tac tac.
Già vede una nuvola a mare: già, sotto le goccie dirotte, vedrà tutto il bosco tremare, covando tra il vento e la notte: tac tac.
FOGLIE MORTE
Oh! che già il vento volta e porta via le pioggie! Dentro la quercia folta ruma le foglie roggie che si staccano, e fru...
partono; un branco ad ogni soffio che l'avviluppi. Par che la quercia sogni ora, gemendo, i gruppi del novembre che fu.
Volano come uccelli, morte nel bel sereno: picchiano nei ramelli del roseo pesco, pieno de' suoi cuccoli già.
E il roseo pesco oscilla pieno di morte foglie: quale s'appende e prilla, quale da lui si toglie con un sibilo, e va.
Ma quelle foglie morte che il vento, come roccia, spazza, non già di morte parlano ai fiori in boccia, ma sussurrano: -- Orsù!
Dentro ogni cocco all'uscio vedo dei gialli ugnoli: tu che costì nel guscio di più covar ti duoli, che ti pèriti più?
Fuori le alucce pure, tu che costì sei vivo! Il vento ruglia... eppure esso non è cattivo. Ruglia, brontola: ma...
contende a noi! Ché tutto vuol che sia mondo l'orto pei nuovi fiori, e il brutto, il secco, il vecchio, il morto, vuol che netti di qua.
Noi c'indugiammo dove nascemmo, un po', ma era per ricoprir le nuove gemme di primavera... -- Così dicono, e fru...
partono, ad un rabbuffo più stridulo e più forte. E tra un voletto e un tuffo vanno le foglie morte, e non tornano più.
CANZONE DI MARZO
Che torbida notte di marzo! Ma che mattinata tranquilla! che cielo pulito! che sfarzo di perle! Ogni stelo, una stilla che ride: sorriso che brilla su lunghe parole.
Le serpi si sono destate col tuono che rimbombò primo Guizzavano, udendo l'estate, le verdi cicigne tra il timo; battevan la coda sul limo le biscie acquaiole.
Ancor le fanciulle si sono destate, ma per un momento; pensarono serpi, a quel tuono; sognarono l'incantamento. In sogno gettavano al vento le loro pezzuole.
Nell'aride bresche anco l'api si sono destate agli schiocchi. La vite gemeva dai capi, fremevano i gelsi nei nocchi. Ai lampi sbattevano gli occhi le prime viole.
Han fatto, venendo dal mare, le rondini tristo viaggio. Ma ora, vedendo tremare sopr'ogni acquitrino il suo raggio, cinguettano in loro linguaggio, ch'è ciò che ci vuole.
Sì, ciò che ci vuole. Le loro casine, qualcuna si sfalda, qualcuna è già rotta. Lavoro ci vuole, ed argilla più salda; perché ci stia comoda e calda la garrula prole.
VALENTINO
Oh! Valentino vestito di nuovo, come le brocche dei biancospini! Solo, ai piedini provati dal rovo porti la pelle de' tuoi piedini;
porti le scarpe che mamma ti fece, che non mutasti mai da quel dì, che non costarono un picciolo: in vece costa il vestito che ti cucì.
Costa; ché mamma già tutto ci spese quel tintinnante salvadanaio: ora esso è vuoto; e cantò più d'un mese per riempirlo, tutto il pollaio.
Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco non ti bastava, tremavi, ahimè!, e le galline cantavano, Un cocco! ecco ecco un cocco un cocco per te!
Poi, le galline chiocciarono, e venne marzo, e tu, magro contadinello, restasti a mezzo, così con le penne, ma nudi i piedi, come un uccello:
come l'uccello venuto dal mare, che tra il ciliegio salta, e non sa ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare, ci sia qualch'altra felicità
IL CROCO
I
O pallido croco, nel vaso d'argilla, ch'è bello, e non l'ami, coi petali lilla tu chiudi gli stami di fuoco:
le miche di fuoco coi lunghi tuoi petali chiudi nel cuore tu leso, o poeta dei pascoli, fiore di croco!
Voi l'acqua di polla ravvivi, o viole, non chi la sua zolla rivuole!
II
Ma messo ad un riso di luce e di cielo, per subito inganno ritorna il tuo stelo colà donde l'hanno diviso:
tu pallido, e fiso nel raggio che accora, nel raggio che piace, dimentichi ch'ora sei esule, lacero, ucciso:
tu apri il tuo cuore, ch'è chiuso, che duole, ch'è rotto, che muore, nel sole!
FANCIULLO MENDICO
Ho nel cuore la mesta parola d'un bimbo ch'all'uscio mi viene. Una lagrima sparsi, una sola, per tante sue povere pene;
e pur quella pensai che vanisse negl'ispidi riccioli ignota: egli alzò le pupille sue fisse, sentendosi molle la gota.
E io, quasi chiedendo perdono, gli tersi la stilla smarrita, con un bacio, e ponevo il mio dono tra quelle sue povere dita.
Ed allora ne intesi nel cuore la voce che ancora vi sta: Non li voglio: non voglio, signore, che scemi le vostra pietà.
E quand'egli già fuor del cancello riprese il solingo sentiero, io sentii, che, il suo grave fardello, godeva a portarselo intiero:
e chiamava sua madre, che sorta pareva da nebbie lontane, a vederlo; poi ch'erano, morta lei, morta! ma lui senza pane.
LA VITE
Or che il cucco forse è vicino, mentre i peschi mettono il fiore, cammino, e mi pende all'uncino la spada dell'agricoltore.
Il pennato porto, ché odo già la prima voce del cucco... cu... cu... io rispondo a suo modo: mi dice ch'io cucchi, e sì, cucco.
Sì, ti cucco, vite, ché sento già nel sole stridere l'api: ti taglio ogni vecchio sarmento, ti lascio tre occhi e due capi.
O che piangi, vite gentile, perché al vento stai nuda nata? Se anch'io tra i fioretti d'aprile sembravo una vite tagliata!
Piangi quello che ti si toglie? Ma ti cucco, taglio ed accollo, perché, quando cadon le foglie, tu abbia un tuo qualche grispollo!
O mia vite... no, o mia vita, così torta meglio riscoppi! E poi... com'è buono, alle dita, l'odore di gemme di pioppi!
E parlare, ritto su loro, col venuto di là dal mare, chiedendogli, in mezzo al lavoro, quant'anni si deve campare!
IL SONNELLINO
Guardai, di tra l'ombra, già nera, del sonno, smarrendo qualcosa lì dentro: nell'aria non era che un cirro di rosa.
E il cirro dal limpido azzurro splendeva sui grigi castelli, levando per tutto un sussurro d'uccelli;
che sopra le tegole rosse del tetto e su l'acque del rio cantavano, e non che non fosse silenzio ed oblìo:
cantavano come non sanno cantare che i sogni nel cuore, che cantano forte e non fanno rumore.
E io mi rivolsi nel blando mio sonno, in un sonno di rosa, cercando cercando cercando quel vecchio qualcosa;
e forse lo vidi e lo presi, guidato da un canto d'uccelli, non so per che ignoti paesi più belli...
che pure ravviso, e mi volgo, più belli, a guardarli più buono... Ma tutto mi toglie la folgore... O subito tuono!
ch'hai fatto succedere a un'alba piaciuta tra il sonno, passata nel sonno, una stridula e scialba giornata!
LA BICICLETTA
I
Mi parve d'udir nella siepe la sveglia d'un querulo implume. Un attimo... Intesi lo strepere cupo del fiume.
Mi parve di scorgere un mare dorato di tremule mèssi. Un battito... Vidi un filare di neri cipressi.
Mi parve di fendere il pianto d'un lungo corteo di dolore. Un palpito... M'erano accanto le nozze e l'amore. dlin... dlin...
II
Ancora echeggiavano i gridi dell'innominabile folla; che udivo stridire gli acrìdi su l'umida zolla.
Mi disse parole sue brevi qualcuno che arava nel piano: tu, quando risposi, tenevi la falce alla mano.
Io dissi un'alata parola, fuggevole vergine, a te; la intese una vecchia che sola parlava con sé. dlin... dlin...
III
Mia terra, mia labile strada, sei tu che trascorri o son io? Che importa? Ch'io venga o tu vada, non è che un addio!
Ma bello è quest'impeto d'ala, ma grata è l'ebbrezza del giorno. Pur dolce è il riposo... Già cala la notte: io ritorno.
La piccola lampada brilla per mezzo all'oscura città. Più lenta la piccola squilla dà un palpito, e va... dlin... dlin...
IL RITORNO DELLE BESTIE
Non sul pioppo picchia il pennato più, né l'eco più gli risponde. L'erta sale un uomo celato dal carico folto di fronde.
E il martello d'un legnaiuolo, più lontano, più non rimbomba. Passa il grido d'un bimbo solo: Turella! Bianchina! Colomba!
Porta in collo l'erba ch'ha fatta, nella sua crinella di salcio. Le sue bestie al greppo, alla fratta, s'indugiano, al cesto ed al tralcio.
Ei che vede sopra ogni tetto già la nuvola celestina, le minaccia col suo falcetto: Colomba! Turella! Bianchina!
C'è un falcetto lucido ancora su la Pania, al fior del sereno, dentro l'aria dolce ch'odora d'un tiepido odore di fieno.
C'è silenzio lassù, dov'erra quel falcetto con qualche stella. Solo il bimbo strilla da terra: Bianchina! Colomba! Turella!
LA FIGLIA MAGGIORE
Ninnava ai piccini la culla, cuciva ai fratelli le fasce: non sapeva, madre fanciulla, come si nasce.
Nel cantuccio, zitta, da brava, preparava cercine e telo pei bimbi che mamma le andava a prendere in cielo.
Or cantano i passeri intorno la piccola croce, in amore... ché lo seppe, misera, un giorno, come si muore!
L'erba è verde, piena di grilli. Non un passo, non una voce mai. Vivono, loro, tranquilli intorno la croce.
Si beccano, s'amano, pascono, in mezzo a quel pieno di cose e di silenzio, dove il verbasco fa tra le rose.
No, passeri! su le sue zolle, no! non fate tanto vicino! Là fitto di bianche corolle è il pero e il susino.
Andate su l'albero in fiore che al vento si dondola e culla! Non turbate l'umile cuore che non sa nulla!
Passa il vento come un respiro caldo, lungo, dolce, che porta su l'alito il polline in giro... sopra la morta.
No, vento d'aprile, no, vento d'amore, no tanto vicino! Là nei campi bacia il frumento, soffia tra il lino!
Fa che venga l'anima ai cardi, che le viti tengano il raspo: fa che abbiano l'accia, più tardi, il guindolo e l'aspo!
Ma l'erba qui prima del fiore, ma il fiore qui prima del seme, la frullana taglia, e due ore sibila e freme.
Un vecchione falcia e raduna l'erbe e i fiori di primavera; poi tutto egli brucia, là, una limpida sera:
la sera, una sera di maggio, che s'odono tanti stornelli di sui gelsi, e sente, il villaggio, di filugelli.
Dal villaggio vedon la fiamma ch'arde sola, rossa, in quel canto: la vedono gli occhi di mamma pieni di pianto.
Oh! piange, ché il vecchio le toglie qualcosa più che le togliesse: fili d'erba, piccole foglie, povera mèsse,
fioritura, sì, bianca e rossa, della bimba, che non lo sa: sua sola, laggiù, nella fossa, maternità.
L'USIGNOLO E I SUOI RIVALI
Egli coglieva ed ammucchiava al suolo secche le foglie del suo marzo primo (era il suo nuovo marzo), il rosignolo,
per farsi il nido. E gorgheggiava in tanto tutto il gran giorno; e dolce più del timo e più puro dell'acqua era il suo canto.
Cantava, quando, per le valli intorno, cu... cu... sentì ripetere, cu... cu... Ecco: al cuculo egli cedette il giorno, e di giorno non volle cantar più.
Non più di giorno. Ma la notte! Appena la luna estiva, di tra l'alabastro delle rugiade, tremolò serena,
riprese il verso; e d'ora in poi soltanto cantava a notte; e lucido com'astro e soave com'ombra era il suo canto.
Cantava, quando, da non so che grotte, sentì gemere, chiù... piangere, chiù... All'assiuolo egli lasciò la notte, anche la notte; e non cantò mai più.
Or né canta né ode: abita presso il brusìo d'una fonte e d'un cipresso.
IL FRINGUELLO CIECO
Finch... finché nel cielo volai, finch... finch'ebbi il nido sul moro, c'era un lume, lassù, in ma' mai, un gran lume di fuoco e d'oro, che andava sul cielo canoro, spariva in un tacito oblìo...
Il sole!... Ogni alba nella macchia, ogni mattina per il brolo, -- Ci sarà? -- chiedea la cornacchia; -- Non c'è più! -- gemea l'assiuolo; e cantava già l'usignolo: -- Addio, addio dio dio dio dio... --
Ma la lodola su dal grano saliva a vedere ove fosse. Lo vedeva lontan lontano con le belle nuvole rosse. E, scesa al solco donde mosse, trillava: -- C'è, c'è, lode a Dio! --
« Finch... finché non vedo, non credo »
però dicevo a quando a quando. Il merlo fischiava -- Io lo vedo --; l'usignolo zittìa spiando. Poi cantava gracile e blando: -- Anch'io anch'io chio chio chio chio... --
Ma il dì ch'io persi cieli e nidi, ahimè che fu vero, e s'è spento! Sentii gli occhi pungermi, e vidi che s'annerava lento lento. Ed ora perciò mi risento: -- O sol sol sol sol... sole mio? -
LA CANZONE DELL'ULIVO
I
A' piedi del vecchio maniero che ingombrano l'edera e il rovo; dove abita un bruno sparviero, non altro, di vivo;
che strilla e si leva, ed a spire poi torna, turbato nel covo, chi sa? dall'andare e venire d'un vecchio balivo:
a' piedi dell'odio che, alfine, solo è con le proprie rovine, piantiamo l'ulivo!
II
l'ulivo che a gli uomini appresti la bacca ch'è cibo e ch'è luce, gremita, che alcuna ne resti pel tordo sassello;
l'ulivo che ombreggi d'un glauco pallore la rupe già truce, dov'erri la pecora, e rauco la chiami l'agnello;
l'ulivo che dia le vermene pel figlio dell'uomo, che viene sul mite asinello.
III
Portate il piccone; rimanga l'aratro nell'ozio dell'aie. Respinge il marrello e la vanga lo sterile clivo.
Il clivo che ripido sale, biancheggia di sassi e di ghiaie; lo assordano l'ebbre cicale col grido solivo.
Qui radichi e cresca! Non vuole, per crescere, ch'aria, che sole, che tempo, l'ulivo!
IV
Nei massi le barbe, e nel cielo le piccole foglie d'argento! Serbate a più gracile stelo più soffici zolle!
Tra i massi s'avvinchia, e non cede, se i massi non cedono, al vento. Lì, soffre, ma cresce, né chiede più ciò che non volle.
L'ulivo che soffre ma bea, che ciò ch'è più duro, ciò crea che scorre più molle.
V
Per sé, c'è chi semina i biondi solleciti grani cui copra la neve del verno e cui mondi lo zefiro estivo.
Per sé, c'è chi pianta l'alloro che presto l'ombreggi e che sopra lui regni, al sussurro canoro del labile rivo.
Non male. Noi mèsse pei figli, noi, ombra pei figli de' figli, piantiamo l'ulivo!
VI
Voi, alberi sùbiti, date pur ombra a chi pianta ed innesta; voi, frutto; e le brevi fiammate col rombo seguace!
Tu, placido e pallido ulivo, non dare a noi nulla; ma resta! ma cresci, sicuro e tardivo, nel tempo che tace!
ma nutri il lumino soletto che, dopo, ci brilli sul letto dell'ultima pace!
PASSERI A SERA
L'uomo che intende gli uccelli, i gridi dei falchi, i pianti delle colombe, ciò che le cincie dicono ai nidi, e il chiù, che vuole più dalle tombe;
siede a un cipresso. Passa, e lavora sempre, un aratro, là, là, soletto, con qualche voce ruvida. È l'ora che vanno i bruni passeri a letto.
Chi vien dal monte, chi vien dal piano: tutti al cipresso. Cantano: -- Sì...
Ora, sebbene tu non ti scopra, sappiamo quanto buono tu fossi ponendo pietra su pietra, e sopra facendo un tetto d'embrici rossi.
Per chi? Per questi passeri... È breve, di verno, il giorno, la notte è lunga: tu vuoi che prima ci esca la neve, tu vuoi che il sole prima ci giunga.
Le case fece la tua gran mano pei tetti, e i tetti per noi coprì.
Hai cibi grati per noi, che sono grandi pel nostro piccolo becco: giorno per giorno, rompi tu buono con i tuoi denti stessi il pan secco;
spargi le bianche briciole, scuoti la bianca tela; le spazzi fuori; ma un po' lontano, come è nei voti di questi buoni tuoi peccatori;
che, sì, vediamo tutto da un ramo, lieti, ma in cuore timidi un po'.
Ed altro pensi, che spetrerebbe tra l'alte nubi l'aquila e il falco! Tu prendi, appena sai che ci crebbe famiglia, i chicchi d'oro dal palco;
esci all'aperto; spargi quei chicchi, prodigo e cauto, tra due filari; anzi, a che l'oro meglio ne spicchi su quel pulito, v'erpichi ed ari.
E noi da un ramo, comodi, udiamo quelle tue lunghe grida, Bi... Ro...
Vero che a volte ce li nascondi, quei chicchi; vero; ma fai per giuoco. Ma ecco, a volte son così fondi, che noi diremmo, Badaci un poco!
Pure il tuo male mai non fa male: quelli che copre l'invida zappa, poi, col frinire delle cicale, mettono un gambo, fanno una rappa: che poi ci sgrani... Dal male il bene: bene che nasce, male che fu. --
Ma già i minori dormono. Soli vegliano i vecchi. C'è chi sospira: -- Ahimè! talvolta di noi ti duoli! Sei giusto, eppure grave nell'ira.
Or che i novelli tengono i capi sotto le alucce, vicino al cuore, lo dico, mentre tacciono l'api, le mosche, i ragni, tutto: si muore!
Tu ci vuoi bene, certo... ma il bene tuo lo vorremmo per un po' più... --
È già nell'ombra tutta la valle: sui monti un raggio trema del giorno. Già le notturne grandi farfalle, coi neri teschi, ronzano intorno.
-- Oh! quel diluvio con che noi vivi tu pigli, grandi, piccoli, troppi! Oh! quel baleno con che ci arrivi fino su l'alte cime dei pioppi!
Ma da te viene ciò che ci piace: forse anche questo ci piacerà. --
Dormono. L'uomo parte. Il cipresso freme di nuovi brevi bisbigli. -- C'era non visto dunque sì presso!? Su, la zampina... non c'è più, figli! --
Va l'uomo, e nero tu nell'azzurro, cipresso pieno d'anime, affondi. Va l'uomo, ed ora bada al sussurro che fan tra loro fievole i mondi,
su, fitti fitti, piccoli, in pace, nell'infinita serenità.
IL GELSOMINO NOTTURNO
E s'aprono i fiori notturni, nell'ora che penso a' miei cari. Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi: là sola una casa bisbiglia. Sotto l'ali dormono i nidi, come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala l'odore di fragole rosse. Splende un lume là nella sala. Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra trovando già prese le celle. La Chioccetta per l'aia azzurra va col suo pigolìo di stelle.
Per tutta la notte s'esala l'odore che passa col vento. Passa il lume su per la scala; brilla al primo piano: s'è spento...
È l'alba: si chiudono i petali un poco gualciti; si cova, dentro l'urna molle e segreta, non so che felicità nuova.
IL POETA SOLITARIO
O dolce usignolo che ascolto (non sai dove), in questa gran pace cantare cantare tra il folto, là, dei sanguini e delle acace;
t'ho presa -- perdona, usignolo -- una dolce nota, sol una, ch'io canto tra me, solo solo, nella sera, al lume di luna.
E pare una tremula bolla tra l'odore acuto del fieno, un molle gorgoglio di polla, un lontano fischio di treno...
Chi passa, al morire del giorno, ch'ode un fischio lungo laggiù riprende nel cuore il ritorno verso quello che non è più.
Si trova al nativo villaggio, vi ritrova quello che c'era: l'odore di mesi-di-maggio buon odor di rose e di cera.
Ne ronzano le litanie, come l'api intorno una culla: ci sono due voci sì pie! di sua madre e d'una fanciulla.
Poi fatto silenzio, pian piano, nella nota mia, che t'ho presa, risente squillare il lontano campanello della sua chiesa.
Riprende l'antica preghiera, ch'ora ora non ha perché; si trova con quello che c'era, ch'ora ora ora non c'è...
Chi sono? Non chiederlo. Io piango, ma di notte, perch'ho vergogna. O alato, io qui vivo nel fango. Sono un gramo rospo che sogna.
LA GUAZZA
Laggiù, nella notte, tra scosse d'un lento sonaglio, uno scalpito è fermo. Non anco son rosse le cime dell'Alpi.
Nel cielo d'un languido azzurro, le stelle si sbiancano appena: si sente un confuso sussurro nell'aria serena.
Chi passa per tacite strade? Chi parla da tacite soglie? Nessuno. È la guazza che cade sopr'aride foglie.
Si parte, ch'è ora, né giorno, sbarrando le vane pupille; si parte tra un murmure intorno di piccole stille.
In mezzo alle tenebre sole, qualcuna riluce un minuto; riflette il tuo Sole, o mio Sole; poi cade: ha veduto.
PRIMO CANTO
Quando apparisce l'oro nel grano col verdolino nuovo dei tralci, e già nell'ore d'ozio il villano sopra una pietra batte le falci;
dall'aie, dalle prode, dal fimo che vaporando sente la state, voi con la gioia del canto primo, primi galletti, tutti cantate: Vita da re...!
A tutte l'ore gettate all'aria, chi di tra i solchi, chi di sui rami, la vostra voce stridula e varia, chi, che ripeta, chi, che richiami.
Chi fioco i versi muta e rimuta, chi strilla quasi lo correggesse: e l'uno dopo l'altro saluta la casa, il sole, l'ombra, la mèsse: Vita da re...!
Galletti arguti, gloria dell'aia che da due mesi v'ospita e pasce, ora la vostra vecchia massaia, quando vi sente, pensa alle grasce:
quando vi sente, pensa ai padroni il contadino vostro che miete, e mentre lega manne e covoni, galletti arguti, con voi ripete: Vita da re...!
Quando, odorati sempre di lolla, lasciate i campi dove nasceste, perché, se un'aspra mano vi sgrolla, voi vi beccate tra voi le creste?
Lunga è la strada, grave la state, vi stringe il duro cappio di tozzo: voi l'uno all'altro rimproverate quel vostro canto chiuso nel gozzo: Vita da re...!
Poi nel paese, tra quattro mura, sotto il barlume forse d'un moggio, nella cucina tacita e scura voi ricordate l'aia ed il poggio;
e mentre tutti dormono, e scialba geme la luce dalle finestre, come un lamento lungo su l'alba suona l'antico grido silvestre: Vita da re...!
LA CANZONE DEL GIRRARROSTO
I
Domenica! il dì che a mattina sorride e sospira al tramonto!... Che ha quella teglia in cucina? che brontola brontola brontola...
È fuori un frastuono di giuoco, per casa è un sentore di spigo... Che ha quella pentola al fuoco? che sfrigola sfrigola sfrigola...
E già la massaia ritorna da messa; così come trovasi adorna, s'appressa:
la brage qua copre, là desta, passando, frr, come in un volo, spargendo un odore di festa, di nuovo, di tela e giaggiolo.
II
La macchina è in punto; l'agnello nel lungo schidione è già pronto; la teglia è sul chiuso fornello, che brontola brontola brontola...
Ed ecco la macchina parte da sé, col suo trepido intrigo: la pentola nera è da parte, che sfrigola sfrigola sfrigola...
Ed ecco che scende, che sale, che frulla, che va con un dondolo eguale di culla.
La legna scoppietta; ed un fioco fragore all'orecchio risuona di qualche invitato, che un poco s'è fermo su l'uscio, e ragiona.
III
È l'ora, in cucina, che troppi due sono, ed un solo non basta: si cuoce, tra murmuri e scoppi, la bionda matassa di pasta.
Qua, nella cucina, lo svolo di piccole grida d'impero; là, in sala, il ronzare, ormai solo, d'un ospite molto ciarliero.
Avanti i suoi ciocchi, senz'ira né pena, la docile macchina gira serena,
qual docile servo, una volta ch'ha inteso, né altro bisogna: lavora nel mentre che ascolta, lavora nel mentre che sogna.
IV
Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora, con una vertigine molle: con qualche suo fremito incuora la pentola grande che bolle.
È l'ora: s'affretta, né tace, ché sgrida, rimprovera, accusa, col suo ticchettìo pertinace, la teglia che brontola chiusa.
Campana lontana si sente sonare. Un'altra con onde più lente, più chiare,
risponde. Ed il piccolo schiavo già stanco, girando bel bello, già mormora, in tavola! in tavola!, e dondola il suo campanello.
L'ORA DI BARGA
Al mio cantuccio, donde non sento se non le reste brusir del grano, il suon dell'ore viene col vento dal non veduto borgo montano: suono che uguale, che blando cade, come una voce che persuade.
Tu dici, È l'ora; tu dici, È tardi, voce che cadi blanda dal cielo. Ma un poco ancora lascia che guardi l'albero, il ragno, l'ape, lo stelo, cose ch'han molti secoli o un anno o un'ora, e quelle nubi che vanno.
Lasciami immoto qui rimanere fra tanto moto d'ale e di fronde; e udire il gallo che da un podere chiama, e da un altro l'altro risponde, e, quando altrove l'anima è fissa, gli strilli d'una cincia che rissa.
E suona ancora l'ora, e mi manda prima un suo grido di meraviglia tinnulo, e quindi con la sua blanda voce di prima parla e consiglia, e grave grave grave m'incuora: mi dice, È tardi; mi dice, È l'ora.
Tu vuoi che pensi dunque al ritorno, voce che cadi blanda dal cielo! Ma bello è questo poco di giorno che mi traluce come da un velo! Lo so ch'è l'ora, lo so ch'è tardi; ma un poco ancora lascia che guardi.
Lascia che guardi dentro il mio cuore, lascia ch'io viva del mio passato; se c'è sul bronco sempre quel fiore, s'io trovi un bacio che non ho dato! Nel mio cantuccio d'ombra romita lascia ch'io pianga su la mia vita!
E suona ancora l'ora, e mi squilla due volte un grido quasi di cruccio, e poi, tornata blanda e tranquilla, mi persuade nel mio cantuccio: è tardi! è l'ora! Sì, ritorniamo dove son quelli ch'amano ed amo.
IL VIATICO
Là, suonano a doppio. Si sente, qua presso, uno struscio di gente, e suona suona un campanello sul dolce mezzodì.
Si sente una lauda che sale tra il fremito delle cicale per il sentiero, ove il fringuello cauto via via zittì.
E passa un branchetto... Son quelli. Son poveri bimbi in capelli, poi donne salmeggianti in coro: O vivo pan del ciel!...
È un vecchio che parte; e il paese gli porta qualcosa che chiese, cantando sotto il cielo d'oro: O vivo pan del ciel!...
qualcosa che in tanti e tanti anni, cercando tra gioie ed affanni, ancora non poté riporre da portar via con sé.
E gli altri si assidono a mensa, ma egli ancor cerca, ancor pensa al niente, al niente che gli occorre, a un piccolo perché,
nel piccolo passo, ch'è un volo di mosca, ch'è un attimo solo... Quel giorno anche per me, campane, sonate pur così,
quel canto, in quell'ora, s'inalzi, portatemi, o piccoli scalzi, portatelo anche a me quel pane, sul vostro mezzodì.
L'IMBRUNIRE
Cielo e Terra dicono qualcosa l'uno all'altro nella dolce sera. Una stella nell'aria di rosa, un lumino nell'oscurità.
I Terreni parlano ai Celesti, quando, o Terra, ridiventi nera; quando sembra che l'ora s'arresti, nell'attesa di ciò che sarà.
Tre pianeti su l'azzurro gorgo, tre finestre lungo il fiume oscuro; sette case nel tacito borgo, sette Pleiadi un poco più su.
Case nere: bianche gallinelle! Case sparse: Sirio, Algol, Arturo! Una stella od un gruppo di stelle per ogni uomo o per ogni tribù.
Quelle case sono ognuna un mondo con la fiamma dentro, che traspare; e c'è dentro un tumulto giocondo che non s'ode a due passi di là.
E tra i mondi, come un grigio velo, erra il fumo d'ogni focolare. La Via Lattea s'esala nel cielo, per la tremola serenità.
LA FONTE DI CASTELVECCHIO
O voi che, mentre i culmini Apuani il sole cinge d'un vapor vermiglio, e fa di contro splendere i lontani vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle teste la brocca, netta come specchio, equilibrando tremula, fanciulle di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso picchia de' duri zoccoli, e la gonna stiocca passando, e suona eterno il flusso della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra, dove brusivo con un lieve rombo sotto i castagni; ora convien che corra chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture, pura di vena, vergine di fango, scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure vergini, piango:
non come piange nel salir grondando l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo: io solo mando tra il gorgoglio blando qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla nel taciturno colle delle capre! udir soltanto foglia che si crolla, cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami del forasiepe! Il mio cantar sommesso era tra i poggi ornati di ciclami sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti, più, se l'eterno mio lamento solo s'accompagnava ai gemiti interrotti dell'assïuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze di Castelvecchio, date a me le nuove del mondo bello: che si fa? le guazze cadono, o piove?
e per le selve ancora si tracoglie, o fate appietto? ed il metato fuma, o già picchiate? aspettano le foglie molli la bruma,
o le crinelle empite ne' frondai in cui dall'Alpe è scesa qualche breve frasca di faggio? od è già l'Alpe ormai bianca di neve?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto quando chiamavo, con il mio rumore fresco, il fanciullo che cogliea nel folto macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo andare come vaccherella stanca va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina, vive la bianca Matta dei Beghelli più? desta lei la sveglia mattutina più, de' fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo sempre garrendo dentro sé, la vecchia: e io, garrendo ancora più, l'empivo sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa! Con lei parlavo, ella parlava meco, come una voce nella valle ombrosa parla con l'eco.
Però singhiozzo ripensando a questa che lasciai nella chiesa solitaria, che avea due cose al mondo, e gliene resta l'una, ch'è l'aria.
TEMPORALE
È mezzodì. Rintomba. Tacciono le cicale nelle stridule seccie.
E chiaro un tuon rimbomba dopo uno stanco, uguale, rotolare di breccie.
Rondini ad ali aperte fanno echeggiar la loggia de' lor piccoli scoppi.
Già, dopo l'afa inerte, fanno rumor di pioggia le fogline dei pioppi.
Un tuon sgretola l'aria. Sembra venuto sera. Picchia ogni anta su l'anta.
Serrano. Solitaria s'ode una capinera, là, che canta... che canta...
E l'acqua cade, a grosse goccie, poi giù a torrenti, sopra i fumidi campi.
S'è sfatto il cielo: a scosse v'entrano urlando i venti e vi sbisciano i lampi.
Cresce in un gran sussulto l'acqua, dopo ogni rotto schianto ch'aspro diroccia;
mentre, col suo singulto trepido, passa sotto l'acquazzone una chioccia.
Appena tace il tuono, che quando al fin già pare, fa tremare ogni vetro,
tra il vento e l'acqua, buono, s'ode quel croccolare co' suoi pigolìi dietro.
LA MIA SERA
Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c'è un breve gre gre di ranelle. Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle nel cielo sì tenero e vivo. Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo. Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell'aspra bufera, non resta che un dolce singulto nell'umida sera.
È, quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili restano cirri di porpora e d'oro. O stanco dolore, riposa! La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno! che gridi nell'aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena. La parte, sì piccola, i nidi nel giorno non l'ebbero intera. Né io... e che voli, che gridi, mia limpida sera!
Don... Don... E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra... Mi sembrano canti di culla, che fanno ch'io torni com'era... sentivo mia madre... poi nulla... sul far della sera.
IN VIAGGIO
Si ferma, e già fischia, ed insieme, tra il ferreo strepito del treno, si sente una squilla che geme, là da un paesello sereno, paesello lungo la via: Ave Maria...
Un poco, tra l'ansia crescente della nera vaporiera, l'addio della sera si sente seguire come una preghiera, seguire il treno che s'avvia: Ave Maria...
E, come se voglia e non voglia, il treno nel partir vacilla: quel suono ci chiama alla soglia e alla lampada che brilla, nella casa, ch'è una badia: Ave Maria...
Il padre a quel suono rincasa facendo un passo ad ogni tocco; e subito all'uscio di casa trova il visino del suo cocco, del più piccino che ci sia... Ave Maria...
Si chiude, la casa; e s'appanna d'un tratto il vocerìo che c'è; si chiude, ristringe, accapanna, per parlare tra sé e sé; e saluta la compagnia... Ave Maria...
O, tinta d'un lieve rossore, casina che sorridi al sole! per noi c'è la notte con l'ore lunghe lunghe, con l'ore sole, con l'ore di malinconia... Ave Maria...
Il treno già vola e ci porta sbuffando l'alito di fuoco; e ancora nell'aria più smorta ci giunge quell'addio più fioco, dal paese che fugge via: Ave Maria...
E cessa. Ma uno che vuole velar gli occhi, pensar lontano, tra gemiti e strilli e parole, tra il frastuono or tremolo or piano, ode il suono che non s'oblia: Ave Maria...
Con l'uomo che va nella notte, tra gli aspri urli, i lunghi racconti del treno che corre per grotte di monti, sopra lenti ponti, vien nell'ombrìa la voce pia: Ave Maria...
MARIA
Ti splende su l'umile testa la sera d'autunno, Maria! Ti vedo sorridere mesta tra i tocchi d'un'Avemaria: sorride il tuo gracile viso; né trova, il tuo dolce sorriso, nessuno:
così, con quelli occhi che nuovi si fissano in ciò che tu trovi per via; che nessuno ti sa; quelli occhi sì puri e sì grandi, coi quali perdoni, e domandi pietà:
quelli occhi sì grandi, sì buoni, sì pii, che da quando li apristi, ne diedero dolci perdoni! ne sparsero lagrime tristi! quelli occhi cui nulla mai diede nessuno, cui nulla mai chiede nessuno!
quelli occhi che toccano appena le cose! due poveri a cena dal ricco, ignorati dai più; due umili in fondo alla mensa, due ospiti a cui non si pensa già più!
LA MIA MALATTIA
I
L'altr'anno, ero malato, ero lontano, a Messina: col tifo. All'improvviso udivo spesso camminar pian piano,
a piedi scalzi. Era Maria, col viso tutt'ombra, dove un mio levar di ciglia gettava sempre un lampo di sorriso.
A volte erano i morti, la famiglia nostra... Io pian piano mi sentia toccare il polso, e sussurrare: -- Oh! la mia figlia!
sola! con nulla! con di mezzo il mare! -
II
Quelle sere, Maria non, come suole, pregava al mio guanciale, co' suoi lenti bisbigli, con le sue dolci parole:
dolci parole dette per gli assenti al buon Gesù, dette per me: preghiere perché in pace riposi e m'addormenti.
Prega, e vuol ch'io ripeta. Quelle sere, nulla, o diceva: « Dormi, ch'hai la voce debole; è meglio ora per te tacere,
dormire; fatti il segno della croce ».
III
Io pensava: -- Ma dunque ella non crede più, tanto? Che sarà della sua vita, un vilucchio avvoltato alla sua fede? --
E pensando, alla mente illanguidita io richiamava le devozioni già dette con le mie tra le sue dita.
E ricordai che tra quei fiochi suoni che a un Angiolo bisbiglia che li porti su, c'era il Requiem; c'era anche: Vi doni
nostro Signore eterna pace, o morti!
IV
Morti che amate, morti che piangete, morti che udivo camminar pian piano nella mia, nella sua stanza a parete:
che sempre in dubbio d'aspettare in vano sempre aspettate con pupille fisse, come il mendico, tesa ch'ha la mano,
quelle preghiere; oh! sì, Maria le disse, quelle preghiere, ma da sé, ma ebbre di pianto, ma di là... che non sentisse
suo fratello, che aveva alta la febbre...
UN RICORDO
Andavano e tornavano le rondini, intorno alle grondaie della Torre, ai rondinotti nuovi. Era d'agosto. Avanti la rimessa era già pronto il calessino. La cavalla storna calava giù, seccata dalle mosche, l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi dell'unghie su le selci della corte. Era un dolce mattino, era un bel giorno: di San Lorenzo. Il babbo disse: « Io vo ».
E in un gruppo tubarono le tortori. Esse là nella paglia erano in cova. Tra quel hu hu, mia madre disse: « Torna prestino ». « Sai che volerò! » « Non correr tanto: la tua stornella è appena doma ». « Eh! mi vuol bene! » « Addio ». « Addio ». « Vai solo? non prendi Jên? » « Aspetto quel signore da Roma... » « È vero. Ti verremo incontro a San Mauro. Io sarò sotto la Croce. Tu ci vedrai passando ». « Io vi vedrò ».
E Margherita, la sorella grande, di sedici anni, disse adagio: « Babbo... »
« Che hai? » « Ho, che leggemmo nel giornale che c'è gente che uccide per le strade... »
Chinò mio padre tentennando il capo con un sorriso verso lei. Mia madre la guardò coi suoi cari occhi di mamma, come dicendo: A cosa puoi pensare! E le rondini andavano e tornavano, ai nidi, piene di felicità.
Mio padre palpeggiò la sua cavalla che l'ammusò con cenno familiare. Riguardò le tirelle e il sottopancia, e raccolte le briglie, calmo e grave, si volse ancora a dire: « Addio! » Mia madre s'appressò con le due bimbe per mano: la più piccina a lui toccò la mazza. Egli teneva il piede sul montante. E in un gruppo le tortori tubarono, e si sentì: « Papà! Papà! Papà! »
E un poco presa egli sentì, ma poco poco, la canna come in un vignuolo, come v'avesse cominciato il nodo un vilucchino od una passiflora. Sì: era presa in una mano molle, manina ancora nuova, così nuova che tutto ancora non chiudeva a modo. Era la bimba che vi avea ravvolte, come poteva, le sue dita rosa, e che gemeva: « No! no! no! no! no! »
Mio padre prese la sua bimba in collo, col suo gran pianto ch'era di già roco; e la baciò, la ribaciò negli occhi zuppi di già per non so che martoro. « Non vuoi che vada? » « No! » « Perché non vuoi? »
« No! no! » « Ti porto tante belle cose! »
« No! no! » La pose in terra: essa di nuovo stese alla canna le sue dita rosa, gli mise l'altro braccio ad un ginocchio: « No! no! papà! no! no! papà! no! no! »
Non s'udì che quel pianto e quei singulti nel tranquillo mattino tutto luce. Più non raspava i ciottoli con l'unghia la cavalla, e volgea la testa smunta alla bimba. E le tortori, hu, hu! Povera bimba! non avea compiuti due anni, e ancor dormiva nella culla. Sapea di latte il suo gran pianto lungo: assomigliava ad un vagir notturno. Mio padre disse: « Non partirò più ».
Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro la cavalla, aspettando ad un altro uscio. Lontanò essa con un ringhio acuto. E mio padre baciò la creatura, e le disse: « Non vado: entro; mi muto, e sto con te. Perché tu sia sicura, prendi la canna ». Rabbrividì tutta essa, come un uccello quando arruffa le piume; le spianò; poi con le due braccia abbracciò la canna di bambù.
Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo non tornò più. Non si rivide a casa. Lo portarono a sera in camposanto, lo stesero in un tavolo di marmo, dissero, oh! sì! dissero ch'era sano, e che avrebbe vissuto anche molti anni. Ma uno squarcio aveva egli nel capo, ma piena del suo sangue era una mano. Maria! Maria! quel pegno di tuo padre, ciò che di lui rimase, ove sarà?
Sorella, a volte penso che tu l'abbia, che tu lo tenga ancora fra le braccia. Così mi pare a volte, che ti guardo e tu non vedi, ché tu stai pregando. Tieni le braccia in croce, un poco lasse; e tieni ancora gli occhi fissi in alto. Stai come quando ti lasciò tuo padre; sicura, come allora. Ma una lagrima ancora scorre a te, di quelle, e il labbro balbetta ancora, sì: « Papà! Papà! »
IL NIDO DI « FARLOTTI »
Tra gli autunnali giorni ricorre al mio pensiero sempre quel giorno, che dal palazzo, dalla gran Torre, facemmo un tanto mesto ritorno:
ritorno tanto mesto, sebbene fosse alla bianca nostra casina che aveva ai piedi tante verbene e su pei muri tanta cedrina;
dov'era, dietro siepi riquadre di biancospino, dietro un cancello verde, ciò ch'era della mia madre, nostro, ma poco; poco, ma bello.
Io non credeva, fuori che in sogno, fossero altrove gigli e giaggioli, e il dolce odore del catalogno e gli agri pomi de' lazzeruoli:
e ch'altro al mondo fosse che il troppo, dopo le canne fitte dell'orto e la mimosa, ch'è morta, e il pioppo, ch'è morto, e l'alto cedro, ch'è morto.
Oh! sì, com'era mesto il ritorno, e sì, la sera com'era mesta, ben ch'in San Mauro fosse, quel giorno, un'argentina romba di festa!
Ma morto il babbo da più d'un mese, non c'era posto per i suoi nati più, nella Torre, sì che al paese ritornavamo come scacciati.
Noi s'era in otto, nove con essa, nella carrozza, piccoli, stretti a lei che stava bianca e dimessa tra lo scoppiare dei mortaretti;
che si vedeva pallida e magra tra il rintoccare delle campane. Noi si tornava per una sagra senza più padre senza più pane.
E disse un uomo; disse: e l'udiva ella e ne pianse le lunghe notti e ne fu trista fin che fu viva, un anno: « Un nido, ve', di farlotti! »
Verlette, quando v'odo cantare, nunzie che il caldo viene e la state, nelle mattine tacite e chiare, nelle opaline lunghe serate;
Oh! -- dico -- il nido fatto tra i rovi. il vostro nido messo tra il rusco, oh! che il villano non ve lo trovi, il molle nido pieno di musco!
che rozzo è fuori, radiche e stecchi, ma dentro è tutto lana e lichene, dove d'un solo tratto sei becchi s'aprono a un solo grillo che viene!
viene nel becco vostro, che intanto state sur una vetta vicine spiando il cibo raro e col canto cullando il nido ch'è tra le spine!
Oh! voi non, mentre gettate il grido che salva gli altri, predi l'astore; né il bruco e il grillo manchi nel nido, né il calduccino di sotto il cuore!
E quando viene Santa Maria che rende all'uomo l'arma sua lunga, oh! la covata vostra già sia buona a volare; ch'e' non vi giunga!
Siano volastri per mezzo agosto, né con la mano l'uomo li pigli dopo un voletto, poco discosto dal nido... come, madre, i tuoi figli!
E come, o madre, quella parola ti si confisse tanto nel petto, che assomigliava la famigliuola tua nuda a quella d'un uccelletto?
O madre! o madre! non era vero? non eran ali dunque le tue? non anche prese te lo sparviero lasciando il nido senza voi due?
prima con otto bocche, poi sette, sei, cinque... aperte sempre al tuo volo, aperte invano... sì, di verlette: nido fra i duri triboli solo.
Tra quei che il falco non ghermì poi, o l'uomo vile, madre mia santa, tra quei farlotti piccoli tuoi, uno non vola dunque? non canta?
non era vero vero? le prime arie non canta, semplici e tristi? non vola, in alto, poi dalle cime scende là dove tu gli sparisti?
IL SOGNO DELLA VERGINE
I
La vergine dorme. Ma lenta la fiamma del puro alabastro le immemori palpebre tenta;
bussa alla chiusa anima. Il lume vacilla nell'ombra, come astro di vita tra un velo di brume.
Echeggia nell'anima, invasa dal sonno, quel battere, e pare destare la tacita casa.
La casa si desta: un sorriso s'accende, si muove ed appare via via qua e là per il viso...
La vergine sogna: ed un rivo di sangue stupisce le intatte sue vene, d'un sangue più vivo, più tiepido: come di latte...
II
Stupisce le placide vene quel flutto soave e straniero, quel rivolo, labile, lene,
d'ignota sorgente, che sembra che inondi di blando mistero le pie sigillate sue membra.
Le gracili membra non sanno lo schianto, non sanno l'amplesso: nel cuore, sì, forse un affanno
c'è, l'ombra di un palpito, l'orma d'un grido: il respiro sommesso d'un vago ricordo che dorma;
che dorma nel cuore ed esali nel cuore il suo sonno romito. La vergine sogna: ecco un alito piccolo, accanto... un vagito...
III
Un figlio! che posa nel letto suo vergine! e cerca assetato le fonti del vergine petto!
O figlio d'un intimo riso dell'anima! o fiore non nato da seme, e sbocciato improvviso!
Tu fiore non retto da stelo, tu luce non nata da fuoco, tu simile a stella del cielo;
dal cielo dell'anima, ov'ora sbocciasti improvviso, tra poco tu dileguerai nell'aurora.
In tanto tu vivi per una breve ora; in un'anima, in tanto, di vergine; in quella tua cuna tu piangi il tuo tacito pianto.
IV
Si dondola dondola dondola senza rumore la cuna nel mezzo al silenzio profondo;
così, come tacito al vento, nel tacito lume di luna, si dondola un cirro d'argento.
Oh! dormi col tremolìo muto dell'esile cuna che avesti! non piangerlo tutto, il minuto
che avesti, dell'esile vita! nel cuore di mamma non resti quell'eco di pianto, infinita!
Sorridile, guardala; appressati a mamma, ch'ormai non ha più, per vivere un poco ancor essa, che il poco di fiato ch'hai tu!
V
Il lume inquieto ora salta guizzando, ora crepita e scende: s'è spento. Quiete più alta.
Nell'ombra già rara, già scialba traverso le immobili tende si sfuma la nebbia dell'alba.
Il fiore improvviso, non sorto da seme, non retto da stelo...
svanito! Non nato, non morto: svanito nell'alito chiaro dell'alba! svanito dal cielo notturno del sogno! -- Cantarono
i galli, rabbrividì l'aria, s'empì di scalpicci la via; da lungi squillò solitaria la voce dell'Avemaria.
IL MENDICO
I
Soletto su l'orlo di un lago che al rosso tramonto riluce, v'è un uomo col refe e con l'ago che cuce tra l'erica bassa.
E cuce; e nel cielo turchino già ridono l'aspre civette, e il lago sul capo suo chino riflette qualche ala che passa.
E cuce; e i suoi cenci nell'acqua, trapunta di tacite bolle, si specchiano, e l'ombra li sciacqua con murmure molle.
II
Ma in tanto che, ombrato da un velo, nell'acqua il lavoro suo fiotta, tra l'urto dei cirri del cielo s'è rotta la tenue gugliata.
Egli alza la testa. Il suo filo s'è rotto; e si sente dai tufi, dall'inaccessibile asilo dei gufi, la morte che fiata.
E piccolo il sole che muore, gli appare traverso la cruna dell'ago. Egli dice nel cuore: -- Ti lodo, Fortuna!
III
Nel mondo a te piacque gettare tuo figlio, terribile e gaia, siccome al fanciullo, nel mare, la ghiaia che sbalzi su l'onde.
Ma tutto m'hai dato a ch'io viva: la mano, che regge la croce, il piede, che mai non arriva, la voce, cui niuno risponde.
M'hai dato la dolce speranza che arretra se il cuore si avvia, l'immemore cuore che avanza su nave che scìa.
IV
Ho errato seguendo le foglie che il vento sospinge per gioco, sostando non più che alle soglie, per poco, tra l'ira dei cani.
Ho errato nel mondo sì bello, seguìto da un cupo latrato, tendendo all'oblìo del fratello mutato le simili mani.
Son giunto: alla tomba; che trova contigua la querula cuna, com'onda, ad ogni attimo nuova, ritrova la duna.
V
Se a me non fu dato vederti mai, ora non, avida ancora, tentando le palpebre inerti, lavora la cieca pupilla.
Se non mi porgesti né un sorso di dolce, le fauci inquiete non m'arde con vano rimorso la sete dell'ultima stilla.
Non vidi che nero, non bebbi che fiele; ma ingrato non sono: ti lodo per ciò che non ebbi; che non abbandono.
VI
Non ebbi il superbo banchetto tra quelli che aspettano al canto le miche: e né letto né tetto, tra tanto di popolo nudo.
Non verso nell'ultimo istante la lagrima vile a versarsi: la prima! la sola! E le tante ch'io sparsi, con gli occhi le chiudo.
Io nudo, bussando alle porte, ti dico, nell'ora che imbruna: Di dolce sol ebbi la morte; ma tutto è quest'una!
VII
Io t'amo pel freddo e lo stento, l'insonnia, il digiuno, l'affanno, cui devo che senza sgomento, che fanno ch'esperto io rimuoia.
Io t'amo perch'ora meschino non chiedo, felice non rendo; ma stanco del lungo cammino discendo senz'onta di gioia;
discendo laggiù tra le grame mie genti, nel mondo che tace, tra gli umili morti di fame che dormono in pace. --
VIII
Su l'orlo d'un lago nei monti, fra stridulo ansare di grilli, sul lago in cui, luna che monti, scintilli, c'è un nero, c'è un mucchio
di squallidi cenci e di membra, c'è un uomo con gli occhi rivolti nel lago, e che attonito sembra che ascolti l'eterno risucchio:
e simile a sogno di nulla, nell'acqua c'è l'ombra sua bruna, che appena si dondola e culla nel lume di luna.
10 agosto 1899.
OV'È?
C'è uno di nuovo stamane su nella casa solitaria. Dall'uscio leva il muso il cane, ne odora la vocina in aria. Eppure fu notte serena! né l'uscio sui gangheri appena ciulì...
Non l'hanno (che dicono?) preso in una ceppa di castagno! Stanotte si sarebbe inteso nel gran silenzio quel suo lagno. Invece nei prati tranquilli non c'era che il canto dei grilli: tri... tri...
Non l'hanno comprato alla fiera, non l'hanno avuto dal convento. Stanotte per le vie non c'era che qualche scalpiccìo del vento; e intorno alle tacite case poi sola la voce rimase del chiù.
Le case eran tacite, chiare le vie; dormiva il cane all'uscio. In casa egli dovette entrare, come il pulcino nel suo guscio! Cadevano stelle celesti, brillando... Oh! dal cielo cadesti pur tu!
Dal cielo! Dal cielo! che piove la guazza su le dure zolle. Tu sei caduto, e non sai dove, e giri l'occhio tutto molle. Non fu la caduta di nulla! Ma c'era una morbida culla per te!
Oh! il mondo in cui oggi ti trovi, del tuo cielo non t'è più caro! fai tante rughe! e sempre muovi la bocca, che ci senti amaro! Oh! il cielo! il tuo cielo! e ne chiedi col fievole grido a chi vedi: ov'è? ov'è?
Ne chiedi ai ragazzi, col giorno venuti sopra il piè leggieri, e alle rondini che intorno passano come lampi neri. Né più, tra il bisbiglio e il sussurro, capisci il tuo cielo d'azzurro dov'è!
Zitti!... ora non chiede più nulla: dov'è, sua madre gliel'ha detto. A lei lo porser dalla culla; la mamma se l'è messo al petto. Oh! ecco il suo cielo infinito! e più non si sente il vagito: ov'è? ov'è?
LA SERVETTA DI MONTE
Sono usciti tutti. La serva è in cucina, sola e selvaggia. In un canto siede ed osserva tanti rami appesi alla staggia. Fa un giro con gli occhi, e bel bello ritorna a guardarsi il pannello.
Non c'è nulla ch'essa conosca. Tutto pende tacito e tetro. E non ode che qualche mosca che d'un tratto ronza ad un vetro; non ode che il croccolìo roco che rende la pentola al fuoco.
Il musino aguzzo del topo è apparito ad uno spiraglio. È sparito, per venir dopo: fa già l'acqua qualche sonaglio... Lontano lontano lontano si sente sonare un campano.
È un muletto per il sentiero, che s'arrampica su su su; che tra i faggi piccolo e nero si vede e non si vede più. Ma il suo campanaccio si sente sonare continuamente.
È forse anco un'ora di giorno. C'è nell'aria un fiocco di luna. Come è dolce questo ritorno nella sera che non imbruna! per una di queste serate! tra tanto odorino d'estate!
La ragazza guarda, e non sente più il campano che a quando a quando. Glielo vela forse il torrente che a' suoi piedi cade scrosciando; se forse non glielo nasconde la brezza che scuote le fronde;
od il canto dell'usignolo che, tacendo passero e cincia, solo solo con l'assiuolo la sua lunga veglia comincia, ch'ha fine su l'alba, alla squilla, nel cielo, della tottavilla.
ADDIO!
Dunque, rondini rondini, addio!
Dunque andate, dunque ci lasciate per paesi tanto a noi lontani. È finita qui la rossa estate. Appassisce l'orto: i miei gerani più non hanno che i becchi di gru.
Dunque, rondini rondini, addio!
Il rosaio qui non fa più rose. Lungo il Nilo voi le rivedrete. Volerete sopra le mimose della Khala, dentro le ulivete del solingo Achilleo di Corfù.
Oh! se, rondini rondini, anch'io...
Voi cantate forse morti eroi, su quest'albe, dalle vostre altane, quando ascolto voi parlar tra voi nella vostra lingua di gitane, una lingua che più non si sa.
Oh! se, rondini rondini, anch'io...
O son forse gli ultimi consigli ai piccini per il lungo volo. Rampicati stanno al muro i figli che al lor nido con un grido solo si rivolgono a dire: Si va?
Dunque, rondini rondini, addio!
Non saranno quelle che le case han murato questo marzo scorso, che a rifarne forse le cimase strisceranno sopra il Rio dell'Orso, che rugliava, e non mormora più.
Dunque, rondini rondini, addio!
Ma saranno pur gli stessi voli; ma saranno pur gli stessi gridi; quella gioia, per gli stessi soli; quell'amore, negli stessi nidi; risarà tutto quello che fu.
Oh! se, rondini rondini, anch'io...
io li avessi quattro rondinotti dentro questo nido mio di sassi! ch'io vegliassi nelle dolci notti, che in un mesto giorno abbandonassi alla libera serenità!
Oh! se, rondini rondini, anch'io...
rivolando su le vite loro, ritrovando l'alba del mio giorno, rimurassi sempre il mio lavoro, ricantassi sempre il mio ritorno, mio ritorno dal mondo di là!
IL RITRATTO
I
Nel collegio d'Urbino il mio fratello faceva in grande un piccolo ritratto. Quando il già fatto a noi parea pur bello, sotto la gomma il bello era già sfatto.
Tornavamo scontenti alla finestra per guardare, intrecciati alla ringhiera, se una carrozza per la via maestra montava nella pace della sera.
Era pace nei cuori. Era l'esame passato alfine con le sue lunghe ore: tranquillo alfine da più dì lo sciame ronzava nella nuova arnia maggiore.
Più grande all'improvviso ogni fanciullo si ritrovava dopo tante acquate; il boccio apriva i petali in un frullo meravigliando che già fosse estate;
e che fosse già colto, anzi, il ciliegio, ma che di rosa si tingesse il melo; che fosse tanto verde oltre il collegio, ch'oltre la scuola fosse tanto cielo.
Si ronzava: non altro. Fra due scuole già chiuse, una di fronte, una alle spalle, nel mezzo c'era l'aria, c'era il sole, odor di timo e voli di farfalle.
Ma nell'ore, più brevi ma più lente, di studio, tra due libri, ch'uno troppo sapeva e l'altro non sapea più niente, stanchi del nostro insolito galoppo,
con tra le mani che sentian di lauro e di busso, le guancie ancor di fiamma, noi pensavamo al nostro bel San Mauro, al babbo atteso d'ora in ora, a mamma...
Se il babbo, a casa, col più grande ch'era già di liceo, portava anche noi tre!... Era quello, lo studio: una preghiera, prima che al babbo, o Dio presente, a te!
II
Il più grande, un fanciullo esile e bianco, nostro babbo d'Urbino, al suo ritratto calmo attendeva; ed ogni tanto al fianco gli era un di noi che gli chiedeva: È fatto?
Quasi... Ma il babbo arriva questa sera. ed il ritratto non sarà finito! Tornavamo a intrecciarci alla ringhiera, a riguardare, ad appuntare il dito,
a dire, Vedi? a dire, Viene! O belle serate, fin che il cielo era celeste, e le vie bianche, e non ardean le stelle sopra il nero di monti e di foreste!
Ma crescendo il silenzio, come triste sonava la campana della cena; mentre stelle lassù, viste e non viste, cadevan per l'oscurità serena!
Oh! non veniva, non veniva ancora! Il ritratto, sì, forse era venuto. Anche due segni, l'opera d'un'ora, di due: sarebbe vivo, benché muto.
Sì: finito in alcune ore, domani! e sì: domani, ci sarebbe anch'esso! Lo spiegherebbe tra le sue due mani, sorriderebbe tacito a sé stesso;
e quindi al figlio, al caro primo, al vanto di casa, al fiore che già dava il frutto: e poi, con gli occhi molli un po' di pianto; anche ai minori -- Eh! sapevate tutto? ! --
troverebbe una lode anche per loro... Domani, dunque, all'ora del tramonto. Il fanciullo, il domani, era al lavoro; verso sera il lavoro era già pronto.
Mancava un nulla. Noi fissi alla via, a una carrozza che montava su... Oh! gittò un grido, spinse tutto via, e tutto in pianto non lavorò più!
III
Era il dieci d'agosto. Era su l'ora dello scurire. L'ora del ritorno. Non attese al ritratto egli d'allora più. Mai più, da quell'ora e da quel giorno.
Quella sera restammo alla finestra, ancora, ancora. Ma pareva in vano. Sì: era, il babbo, in una via maestra: sì, ma come, ma quanto era lontano!
Oltre monti, oltre fiumi, oltre pianure, oltre città. Veniva da Cesena. Di buon trotto. Non anco erano oscure le strade. Solo. L'anima, serena.
Oltre fiumi, città, monti, da un monte, il caro figlio lo guardava in viso: ne sfiorava la bianca larga fronte, sorrideva al suo placido sorriso.
Oh! mio fratello, che fu mai? La bianca fronte d'un tratto si macchiò di stille rosse, la testa in un attimo stanca per sempre, si piegò, con le pupille
ferme in eterno... O tu che sei congiunto a lui, ch'oltre lo spazio, oltre la vita, vedevi allora, oh! non egli in quel punto si sentì su la fronte le tue dita?
La tua carezza non gli fu conforto tra il sudor freddo e il rompere del sangue? Non gli fu meglio, o mio fratello morto, non veder là un doppio teschio esangue
dietro la siepe, e due vili ombre nere fuggir nell'ombra; ma veder te, noi? miseri, sì, per sempre, ma vedere nella via sola quattro figli suoi?
Nella via sola, dopo il soprassalto di pianto, tutti quattro, orfani già, guardammo ancora. E poi guardammo in alto cader le stelle nell'oscurità.
LA CAVALLA STORNA
Nella Torre il silenzio era già alto. Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia, nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa era mia madre; e le dicea sommessa:
« O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto! Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d'otto tra miei figli e figlie; e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l'uragano, tu dài retta alla sua piccola mano.
Tu ch'hai nel cuore la marina brulla, tu dài retta alla sua voce fanciulla ».
La cavalla volgea la scarna testa verso mia madre, che dicea più mesta:
« O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l'amavi forte! Con lui c'eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l'ondate e il vento, tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso, nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via, perché facesse in pace l'agonia... »
La scarna lunga testa era daccanto al dolce viso di mia madre in pianto.
« O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire! E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe, con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l'eco degli scoppi, seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole, perché udissimo noi le sue parole ».
Stava attenta la lunga testa fiera. Mia madre l'abbracciò su la criniera
« O cavallina, cavallina storna, portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai! Tu fosti buona... Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa. Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise: esso t'è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome. E tu fa cenno. Dio t'insegni, come ».
Ora, i cavalli non frangean la biada: dormian sognando il bianco della strada. La paglia non battean con l'unghie vuote: dormian sognando il rullo delle ruote. Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: disse un nome... Sonò alto un nitrito.
IN RITARDO
E l'acqua cade su la morta estate, e l'acqua scroscia su le morte foglie; e tutto è chiuso, e intorno le ventate gettano l'acqua alle inverdite soglie;
e intorno i tuoni brontolano in aria; se non qualcuno che rotola giù.
Apersi un poco la finestra: udii rugliare in piena due torrenti e un fiume; e mi parve d'udir due scoppiettìi e di vedere un nereggiar di piume.
O rondinella spersa e solitaria, per questo tempo come sei qui tu?
Oh! non è questo un temporale estivo col giorno buio e con la rosea sera, sera che par la sera dell'arrivo, tenera e fresca come a primavera,
quando, trovati i vecchi nidi al tetto, li salutava allegra la tribù.
Se n'è partita la tribù, da tanto! tanto, che forse pensano al ritorno, tanto, che forse già provano il canto che canteranno all'alba di quel giorno: sognano l'alba di San Benedetto nel lontano Baghirmi e nel Bornù.
E chiudo i vetri. Il freddo mi percuote, l'acqua mi sferza, mi respinge il vento. Non più gli scoppiettìi, ma le remote voci dei fiumi, ma sgrondare io sento
sempre più l'acqua, rotolare il tuono, il vento alzare ogni minuto più.
E fuori vedo due ombre, due voli, due volastrucci nella sera mesta, rimasti qui nel grigio autunno soli, ch'aliano soli in mezzo alla tempesta:
rimasti addietro il giorno del frastuono, delle grida d'amore e gioventù.
Son padre e madre. C'è sotto le gronde un nido, in fila con quei nidi muti, il lor nido che geme e che nasconde sei rondinini non ancor pennuti.
Al primo nido già toccò sventura. Fecero questo accanto a quel che fu.
Oh! tardi! Il nido ch'è due nidi al cuore, ha fame in mezzo a tante cose morte; e l'anno è morto, ed anche il giorno muore, e il tuono muglia, e il vento urla più forte,
e l'acqua fruscia, ed è già notte oscura, e quello ch'era non sarà mai più.
IL RITORNO A SAN MAURO
LE RANE
Ho visto inondata di rosso la terra dal fior di trifoglio; ho visto nel soffice fosso le siepi di pruno in rigoglio; e i pioppi a mezz'aria man mano distendere un penero verde lunghesso la via che si perde lontano.
Qual è questa via senza fine che all'alba è sì tremula d'ali? chi chiamano le canapine coi lunghi lor gemiti uguali? Tra i rami giallicci del moro chi squilla il suo tinnulo invito? chi svolge dal cielo i gomitoli d'oro?
Io sento gracchiare le rane dai borri dell'acque piovane nell'umida serenità. E fanno nel lume sereno lo strepere nero d'un treno che va...
Un sufolo suona, un gorgoglio soave, solingo, senz'eco. Tra campi di rosso trifoglio, tra campi di giallo fiengreco, mi trovo; mi trovo in un piano che albeggia, tra il verde, di chiese; mi trovo nel dolce paese lontano.
Per l'aria, mi giungono voci con una sonorità stanca. Da siepi, lunghe ombre di croci si stendono su la via bianca. Notando nel cielo di rosa mi arriva un ronzìo di campane, che dice: Ritorna! Rimane! Riposa!
E sento nel lume sereno lo strepere nero del treno che non s'allontana, e che va cercando, cercando mai sempre ciò che non è mai, ciò che sempre sarà...
LA MESSA
La squilla sonava l'entrata. Diceva con voce affrettata: -- Non entri? Non entri? Perché?
C'è un rito con fiori, con ceri, con fiocchi d'incenso leggieri. Su, entra, ché suono per te.
Udrai dopo un chiaro tintinno, salire la gloria d'un inno dall'organo che gemerà.
C'è un vecchio che mormora stanco con tutto un suo tremolìo bianco, parole di felicità.
La panca vedrai dove un giorno veniva coi piccoli intorno tua mamma: venivi anche tu.
Pregava (tuo padre non c'era) pregava; ma quella preghiera s'è forse smarrita laggiù.
T'udrai (sa il tuo nome!) chiamare da quella... Ha le lagrime amare del cuore che invano pregò.
Non entri? Anche tu piangerai. Ma il piangere è buono, lo sai; ma il piangere è buono, lo so.
Sonai per tua mamma... ma grave, ma dolce, ma pia, come un Ave. sonai per la madre che fu!
Sonai con rintocchi sì piani! pensando che aveva lontani voi, bimbi, che non vide più... -
LA TESSITRICE
Mi son seduto su la panchetta come una volta... quanti anni fa? Ella, come una volta, s'è stretta su la panchetta.
E non il suono d'una parola; solo un sorriso tutto pietà. La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: Come ho potuto, dolce mio bene, partir da te? Piange, e mi dice d'un cenno muto: Come hai potuto?
Con un sospiro quindi la cassa tira del muto pettine a sé. Muta la spola passa e ripassa.
Piango, e le chiedo: Perché non suona dunque l'arguto pettine più? Ella mi fissa timida e buona: Perché non suona?
E piange, e piange -- Mio dolce amore, non t'hanno detto? non lo sai tu? Io non son viva che nel tuo cuore.
Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso per te soltanto; come, non so; in questa tela, sotto il cipresso, accanto alfine ti dormirò. -
CASA MIA
Mia madre era al cancello. Che pianto fu! Quante ore! Lì, sotto il verde ombrello della mimosa in fiore!
M'era la casa avanti, tacita al vespro puro, tutta fiorita al muro di rose rampicanti.
Ella non anche sazia di lagrime, parlò: -- Sai, dopo la disgrazia, ci ristringemmo un po'... --
Una lieve ombra d'ale annunziò la notte lungo le bergamotte e i cedri del viale.
-- ci ristringemmo un poco, con le tue bimbe; e fanno... -- Era il suo dire fioco fioco, con qualche affanno.
S'udivano sussurri cupi di macroglosse su le peonie rosse e sui giaggioli azzurri.
-- Fanno per casa (io siedo) le tue sorelle tutto. Quando così le vedo, col grembiul bianco, in lutto... --
Io vidi allor la mia vita passar soave, tra le sorelle brave, presso la madre pia.
Dissi: -- Oh! restare io voglio! Vidi nel mio cammino al sangue del trifoglio presso il celeste lino.
Qui sperderò le oscure nubi e la mia tempesta, presso la madre mesta, tra le sorelle pure!
Lavorerò di lena tutto il gran giorno; e sento ch'alla tua parca cena m'assiderò contento,
quando dal mio lavoro, o la tua lieve mano od il vocio lontano mi chiamerà, di loro.
E sarò lieto e ricco io delle mie fatiche, quando ogni tenue chicco germinerà tre spiche.
E comprerò leggiadre vesti alle mie fanciulle, e l'abito di tulle alla lor dolce madre. --
Così dicevo: in tanto ella piangea più forte, e gocciolava il pianto per le sue guancie smorte.
S'udivano sussurri cupi di macroglosse su le peonie rosse e sui giaggioli azzurri.
-- Oh! tu lavorerai dove son io? Ma dove son io, figliuolo, sai, ci nevica e ci piove! --
Una lieve ombra d'ale annunziò la notte lungo le bergamotte e i cedri del viale.
-- Oh! dolce qui sarebbe vivere? oh! qui c'è bello? Altri qui nacque e crebbe! Io sto, vedi, al cancello. --
M'era la casa avanti, tacita al vespro puro, tutta fiorita al muro di rose rampicanti.
MIA MADRE
Zitti, coi cuori colmi, ci allontanammo un poco. Tra il nereggiar degli olmi brillava il cielo in fuoco.
... Come fa presto sera, o dolce madre, qui!
Vidi una massa buia di là del biancospino: vi ravvisai la thuia, l'ippocastano, il pino...
... Or or la mattiniera voce mandò il luì;
Tra i pigolìi dei nidi, io vi sentii la voce mia di fanciullo... E vidi, nel crocevia, la croce.
... sonava a messa, ed era l'alba del nostro dì:
E vidi la Madonna dell'Acqua, erma e tranquilla, con un fruscìo di gonna, dentro, e l'odor di lilla.
... pregavo... E la preghiera di mente già m'uscì!
Sospirò ella, piena di non so che sgomento. Io me le volsi: appena vidi il tremor del mento.
... Come non è che sera, madre, d'un solo dì?
Me la miravo accanto esile sì, ma bella: pallida sì, ma tanto giovane! una sorella!
bionda così com'era quando da noi partì.
COMMIATO
Una stella sbocciò nell'aria. Le risplendé nelle pupille. Su la campagna solitaria tremava il pianto delle squille.
-- È ora, o figlio, ora ch'io vada. Sono stata con te lunghe ore. Tra questi bussi è la mia strada; la tua, tra quelle acacie in fiore. Sii buono e forte, o figlio mio: va dove t'aspettano. Addio!
...Venir con te? Ma non è dato! Sai pure: m'han cacciata via. Ci fu chi non mi volle allato nel mondo, così larga via; chi non permise che, sia pure, stessi con le mie creature.
...Tu venir qui? Viene chi muore... E tu vuoi dunque venir qui. Sei stanco: è vero? Hai male al cuore. Quel male l'ebbi anch'io, Zvanî! È un male che non fa dormire; ma che alfine poi fa morire. --
Si chiudevano i casolari. Cresceva l'ombra delle cose. Ancor tra i lontani filari traspariva color di rose.
-- Ma dimmi, o madre, dimmi almeno, se nel tramonto del suo giorno tuo figlio si deve sereno preparare per un ritorno! se ciò che qualcuno ci prende, v'è qualch'altro che ce lo rende!
Ricorderò quella preghiera con quei gesti e segni soavi; tuo figlio risarà qual era allora che glieli insegnavi: s'abbraccerà tutto all'altare: ma fa che ritorni a sperare!
A sperare e ora e nell'ora così bella se a te conduce! O madre, fa ch'io creda ancora in ciò ch'è amore, in ciò ch'è luce! O madre, a me non dire, Addio, se di là è, se teco è Dio! --
Sfioriva il crepuscolo stanco. Cadeva dal cielo rugiada. Non c'era avanti me, che il bianco della silenziosa strada.
GIOVANNINO
In una breccia, allo smorir del cielo, vidi un fanciullo pallido e dimesso. Il fior caduto ravvisò lo stelo; io nel fanciullo ravvisai me stesso. Ci rivedemmo all'ultimo riflesso; e sì, l'uno dell'altro ebbe pietà.
Gli dissi: -- Tu sei qui solo soletto: un mucchiarello d'alga presso il mare. Hai visto un chiuso, e tu non hai più tetto; di là c'è gente, e tu vorresti entrare. Oh! quella casa è senza focolare: non c'è, fuor che silenzio, altro, di là. --
Scosse i capelli biondi di su gli occhi. -- No! -- mi rispose: -- là c'è il camposanto. Tua madre ti riprende sui ginocchi; tu ti rivedi i fratellini accanto. Si trova un bacio quando qui s'è pianto; si trova quello che smarrimmo qui. --
-- O fior caduto alla mia vita nuova! -- io rispondeva, -- o raggio del mattino! Io persi quello che non più si trova, e vano è stato il lungo mio cammino. A notte io vedo, stanco pellegrino, che deviai su l'alba del mio dì!
Felice te che a quello che rimpiango, così da presso, al limitar, rimani! -- -- Misero me, che fuori ne rimango, così lontano come i più lontani! Alla porta che s'apre alzo le mani, ma tu sai ch'io... non posso entrarvi più.
S'apre a tant'altri gracili fanciulli, addormentati sui lor lunghi temi, addormentati in mezzo ai lor trastulli; s'apre appena e si chiude e par che tremi: assai se, là, venir tra i crisantemi vedo la rossa veste di Gesù!... --
IL BOLIDE
Tutto annerò. Brillava, in alto in alto, il cielo azzurro. In via con me non c'eri, in lontananza, se non tu, Rio Salto.
Io non t'udiva: udivo i cantonieri tuoi, le rane, gridar rauche l'arrivo d'acqua, sempre acqua, a maceri e poderi.
Ricordavo. A' miei venti anni, mal vivo, pensai tramata anche per me la morte nel sangue. E, solo, a notte alta, venivo
per questa via, dove tra l'ombre smorte era il nemico, forse. Io lento lento passava, e il cuore dentro battea forte.
Ma colui non vedrebbe il mio spavento, sebben tremassi all'improvviso svolo d'una lucciola, a un sibilo di vento:
lento lento passavo: e il cuore a volo andava avanti. E che dunque? Uno schianto; e su la strada rantolerei, solo...
no, non solo! Lì presso è il camposanto, con la sua fioca lampada di vita. Accorrerebbe la mia madre in pianto.
Mi sfiorerebbe appena con le dita: le sue lagrime, come una rugiada nell'ombra, sentirei su la ferita.
Verranno gli altri, e me di su la strada porteranno con loro esili gridi a medicare nella lor contrada,
così soave! dove tu sorridi eternamente sopra il tuo giaciglio fatto di muschi e d'erbe, come i nidi!
Mentre pensavo, e già sentìa, sul ciglio del fosso, nella siepe, oltre un filare di viti, dietro un grande olmo, un bisbiglio
truce, un lampo, uno scoppio... ecco scoppiare e brillare, cadere, esser caduto, dall'infinito tremolìo stellare,
un globo d'oro, che si tuffò muto nelle campagne, come in nebbie vane, vano; ed illuminò nel suo minuto
siepi, solchi, capanne, e le fiumane erranti al buio, e gruppi di foreste, e bianchi ammassi di città lontane.
Gridai, rapito sopra me: Vedeste? Ma non v'era che il cielo alto e sereno. Non ombra d'uomo, non rumor di péste.
Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso mi parve quanto mi parea terreno.
E la Terra sentii nell'Universo. Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella. E mi vidi quaggiù piccolo e sperso
errare, tra le stelle, in una stella.
TRA SAN MAURO E SAVIGNANO
Una voce ora udii nel camposanto. -- Dal tetro sonno in pieno dì mi scosse un lungo squillo che parea di pianto.
E... Oh! speranza del mio cuor superba! I miei cari lasciai nelle lor fosse dormire avvolti in bianche fibre d'erba.
Cantavano un soave inno le trombe, di pianto e gloria; ed echeggiava lento su l'immobilità delle altre tombe.
La mia sussultò sola. Era d'un grande popolo il passo... mi parea che al vento s'esalasse l'odor delle ghirlande...
Chi venne in pia soavità di rose alla sua pace? Forse... Ora che ai vivi apri l'anime, o notte, ombri le cose;
vado: la voglio rimirar, con l'orme del pensiero ma già sui semprevivi calma, la fronte di colui che dorme.
Odor di fiori mi conduce ov'egli dorme... Non è chi mi sperava il cuore. Non è. Non è... Ma chi sei tu? Tu vegli!
Oh! non hai pace!... Io so chi sei... chi eri. Tu sei colui che uccide e che poi muore. Oh! son anni, son anni anni... Fu ieri.
Tu non hai fatto che bagnar la fossa tua del mio sangue. E tu davi la morte che ignoravi? Ma eri anche tu d'ossa.
L'uomo non ti punì? Tu dalla vita giungi tra i fiori? Hai oggi dalla morte la pena che sarebbe oggi finita.
Riposeresti... Oh! i figli miei! Tu giungi or dalla vita. Alcuni già qui sono con me, con noi. Gli altri, non so, ma lungi.
Una dormiva ancora nella culla. Tutti piccoli, tristi, in abbandono e scoramento... Ne sai nulla?... Nulla.
Avevi i tuoi... Ma io, io ombra esangue, io di qui sopra le lor nude vite getto il mantello del mio puro sangue.
Se fanno il male, li difendo io, sorto su loro. Uomini, me me non punite, se chi m'uccise, infuria su me morto!
Se poi si sono stretti, umili e proni al lor destino e nella terra amara per bontà loro vollero esser buoni;
oh! benedetti! E il tristo ieri adorni oggi di fiori semplici la cara miseriola dei lor miti giorni.
Ma se alcuno di loro, dallo stento della sua giovinezza, a poco a poco avesse alzato, oh! non la fronte e il mento,
ma il cuore! il cuore! se dalla sua creta insanguinata avesse tratto il fuoco! se fosse, quel mendico, ora un poeta!
fosse un consolatore, egli cui niuno consolò! fosse, il derelitto, un forte! un grande fosse l'orfano digiuno!...
Io sogno! Io sogno, o muto autor del male! ma se di quelli che dannasti a morte col padre loro, fosse, uno, immortale!
Oh! se qui, con soavi inni, a' suoi morti ch'egli amò tanto, il popolo suo mai, in un giorno d'amor, non lo riporti;
io là sarò, col figlio mio sepolto, che mi ridona ciò che gli donai, che m'ha ridato ciò che tu m'hai tolto! --
Oh padre!... Gli astri... Vega, Aquila, Arturo... splendeano sopra il camposanto oscuro...
APPENDICE
ALLA CARA SORELLA
DIARIO AUTUNNALE
(1907)
I
Bologna, 1 novembre.
Che fanno là, presso la muta altana, i crisantemi, i nostri fior, che fanno?
Oh! stanno là, con la beltà lor vana, a capo chino, lagrimando, stanno.
Pensano che quest'anno sei lontana, lagrimano che non ci sei quest'anno.
Non torna più! mormora la campana... Ma le cincie: Sì! Sì! Ritorneranno!
II
Bologna, 2 novembre.
Per il viale, neri lunghi stormi, facendo tutto a man a man più fosco, passano: preti, nella nebbia informi, che vanno in riga a San Michele in Bosco.
Vanno. Tra loro parlano di morte. Cadono sopra loro foglie morte.
Sono con loro morte foglie sole. Vanno a guardare l'agonia del sole.
III
Torre di San Mauro. Notte dal 9 al 10 novembre.
Dormii sopra la chiesa della Torre. Cantar, la notte, udii soave e piano.
Udii, tra sonno e sonno, voci e passi, e tintinnire il campanello d'oro, ed un fruscìo di pii bisbigli bassi, ed un ronzìo d'alte preghiere in coro, ed una gloria d'organo canoro, che dileguava a sospirar lontano.
A sospirar così soave e piano! Era una messa. Santo! Santo! Santo!
Ma eran voci morte che cantare udii la notte fino sul mattino: un morto prete curvo su l'altare, un bimbo morto ritto sul gradino, con su le spalle il suo lenzuol di lino in che l'avvolse la sua madre in pianto.
Era la messa. Santo! Santo! Santo! Ma sul mattino ecco garrir gli uccelli:
-- No: era il vento quel ronzìo che udisti, erano pioggia quei bisbigli bassi. Frusciavan alto i vecchi abeti tristi, brusivan cupo i tristi vecchi tassi. Erano foglie, foglie secche, i passi, cadute ai vecchi tigli, ai vecchi ornelli. --
Così garrendo mi dicean gli uccelli. E i vecchi alberi: -- Il tempo, come corre!
Quel campanello era il tuo vecchio cuore, in cui battean vecchie memorie care; ma le altre voci, fievoli o sonore, di noi, non le potevi ricordare... Siamo di dopo!... A que' tuoi giorni, pare, tutto era a prato avanti quella Torre. --
IV
Bologna, 14 novembre.
La luna par che adagio si avvicini a San Michele, e guardi nel Convento. No: non ci sono frati, ma bambini... fuori del nido. Ella ristà tra il vento.
Han l'ali rotte... Ma nei letti bianchi dormono in lunghe file, come stanchi;
stanchi di voli, ora sognati almeno, che poi la madre li raccoglie al seno.
La luna ascolta. Non li vuol destare ma vuol vedere; e se ne va, ma sale. Illuminare deve i monti e il mare, ma un raggio manda anche sul lor guanciale.
E sale il cielo, l'alto cielo buono; cerca le stelle in cielo: dove sono?...
e corre e cerca: dove mai son elle?... Vuol dir la cosa alle virginee stelle.
V
Bologna, 20 novembre.
IL PONTE SULL'APOSA
I
Aposa trista! Il povero al tuo ponte sosta, e non altri. Siede sul sedile, né guarda: non a valle non a monte:
non alle torri lunghe e sdutte, che oggi sfumano in grigio, non a quelle file d'alti cipressi tra i castagni roggi:
ascolta, a capo chino, ad occhi bassi, te che laggiù brontoli cupa, e passi.
II
A te vengono gli uomini infelici, Aposa trista! E nella solitaria notte a qualcuno tristi cose dici.
T'ascolta a lungo. E poi, quando una foglia secca di platano, a un brivido d'aria, sembra un fruscìo di gonna su la soglia:
ecco, quell'uomo non è più: dirupa... tu passi, e dopo un po' brontoli cupa.
III
Aposa trista! E l'Aposa risponde: -- Vien l'usignolo, a marzo, tra le acace!
Al gorgoglìo delle mie picciole onde sta prima attento, a lungo impara, e tace.
Ma poi di canto m'empie le due sponde; e il canto suo già mio singulto fu.
Canta al suo nido, al nido suo di fronde, di quelle fronde che cadono giù... -
VI
Bologna, 12 decembre.
NARCISSI
I
-- Narcissi d'oro, candidi narcissi, voi che corona avete oltre corolla:
per cuna aveste un vaso, e non la zolla; terriccio a letto, e non la madre terra.
Per gli altri il freddo, ma per voi la serra; morivan gli altri, e voi veniste in boccia.
Ora ogni foglia stride e s'accartoccia; e voi fiorite, lieti, belli, e soli. --
II
-- Oh! i primi caldi dopo il verno, e i voli delle farfalle, e i canti dei fringuelli!
Al sole uscir con tutti i suoi fratelli, odorar tutti al cominciar d'aprile!
al vento, all'acqua, a gruppi a macchie a file, in tanti, in tanti, da sfiorire in pace!
nel prato, con le altr'erbe, fin che piace alla falce che agguaglia erbe e narcissi. --
VII
Castelvecchio, 15 decembre.
NELL'ORTO
I
A casa mia giunto sul vespro alfine, io vedo un sogno ch'è pur cosa vera.
I quattro peri che piantai nell'orto a circondar la conca d'arenaria, vedo fioriti! E il cielo è bigio e smorto, la nebbia fuma, fredda punge l'aria: la neve è su la Pania solitaria... -- Allora, a marzo, o che lassù non c'era? --
E tutto cade, tutto va, si perde; il fiume va come una folla in pianto. La quercia ha il musco e l'edera, di verde: sui verdi rami ha un suo gran rosso manto. Sol foglie secche, e i vostri fior soltanto!... -- O non era così di primavera? --
Marzo a decembre, alba somiglia a sera! Eppure altro è il principio, altro la fine.
II
Vedo tremare un poco le fogline delle corolle al vento che le sfiora.
Avete il tempo, arbusti miei, sbagliato: ora non viene la dolciura in cielo. Non si prepara a rifiorire il prato: viene la brina e mangia ogni suo stelo. Viene la brina, ed anche viene il gelo... -- E così dunque non accadde allora? --
Ma il monte allora ritornò turchino, e fiorirono i peschi e gli albicocchi. Era fiorito il mandorlo e il susino, metteva il melo foglie e fiori a gli occhi. Fiori per tutto, a spighe, a mazzi, a fiocchi... -- A noi, col gelo li strinò l'aurora! --
Poveri arbusti! E si riprovan ora. Oh! videro fiorire anche le spine!...
VIII
Castelvecchio, 21 decembre.
Io sento il suono dell'antica avena su l'alba ancora scialba ma serena.
Ed ecco il monte trascolora in rosa, splendono i vetri a tutte le finestre. E gente va, che vuol saper la cosa, per le callaie e per le vie maestre. Va dove il placido organo silvestre canta l'antica sacra cantilena.
È un pastor bianco al pari della neve, che non ha casa ed anco all'otre beve.
Dice: -- Era il sole per fuggir dal cielo. Oggi s'è fermo e tornerà pian piano. Piccolo è il seme, ma fa lungo stelo; il seme è poco, ma fa tanto grano: ed il buon Sole per un anno sano semina, o genti, il giorno suo più breve. --
TV BIBIS IPSE GEMO
EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giovanni Pascoli - Poesie - sezione prima",
I CLASSICI CONTEMPORANEI ITALIANI, collezione diretta da Giansiro Ferrata,
Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1971
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