Giovanni Pascoli - Opera Omnia >>  Il fanciullino




 

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I


È dentro noi un fanciullino (1) che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell'età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona. E anche, egli, l'invisibile fanciullo, si perita vicino al giovane più che accanto all'uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d'un passato ancor troppo recente. Ma l'uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l'armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.
O presso il vecchio grigio mare. Il mare è affaticato dall'ansia della vita, e si copre di bianche spume, e rantola sulla spiaggia. Ma tra un'ondata e l'altra suonano le note dell'usignuolo ora singultite come un lamento, ora spicciolate come un giubilo, ora punteggiate come una domanda. L'usignuolo è piccolo, e il mare è grande; e l'uno è giovane, e l'altro è vecchio. Vecchio è l'aedo, e giovane la sua ode. Väinämöinen è antico, e nuovo il suo canto (2). Chi può imaginare, se non vecchio l'aedo e il bardo? Vyàsa è invecchiato nella penitenza e sa tutte le cose sacre e profane. Vecchio è Ossian, vecchi molti degli skaldi. L'aedo è l'uomo che ha veduto (oîde) e perciò sa, e anzi talvolta non vede più; è il veggente (aoidós) che fa apparire il suo canto (3).
Non l'età grave impedisce di udire la vocina del bimbo interiore, anzi invita forse e aiuta, mancando l'altro chiasso intorno, ad ascoltarla nella penombra dell'anima (4). E se gli occhi con cui si mira fuor di noi, non vedono più, ebbene il vecchio vede allora soltanto con quelli occhioni che son dentro di lui, e non ha avanti sé altro che la visione che ebbe da fanciullo e che hanno per solito tutti i fanciulli. E se uno avesse a dipingere Omero, lo dovrebbe figurare vecchio e cieco, condotto per mano da un fanciullino, che parlasse sempre guardando torno torno. Da un fanciullino o da una fanciulla: dal dio o dall'iddia: dal dio che sementò nei precordi di Femio quelle tante canzoni, o dell'iddia cui si rivolge il cieco aedo di Achille e di Odisseo (5).



II


Ma il garrulo monello o la vergine vocale erano dentro lui, invisibilmente. Erano la sua medesima fanciullezza, conservata in cuore attraverso la vita, e risorta a ricordare e a cantare dopo il gran rumorio dei sensi. E la sua fanciullezza parlava per ciò più di Achille che d'Elena, e s'intratteneva col Ciclope meglio che con Calipso. Non sono gli amori, non sono le donne, per belle e dee che siano, che premono ai fanciulli; sì le aste bronzee e i carri da guerra e i lunghi viaggi e le grandi traversie. Così codeste cose narrava al vecchio Omero il suo fanciullino, piuttosto che le bellezze della Tindaride e le voluttà della dea della notte e della figlia del sole (6). E le narrava col suo proprio linguaggio infantile.
Tornava da paesi non forse più lontani che il villaggio che è più vicino ai pastori della montagna; ma esso ne parlava ad altri fanciulli che non c'erano stati mai. Ne parlava a lungo, con foga, dicendo i particolari l'un dopo l'altro e non tralasciandone uno, nemmeno, per esempio, che le schiappe da bruciare erano senza foglie. Ché tutto a lui pareva nuovo e bello, ciò che vi aveva visto, e nuovo e bello credeva avesse a parere agli uditori. La parola "bello" e "grande" ricorreva a ogni momento nel suo novellare, e sempre egli incastrava nel discorso una nota a cui riconoscere la cosa. Diceva che le navi erano nere, che avevano dipinta la prora, che galleggiavano perché ben bilanciate, che avevano belli attrezzi, bei banchi; che il mare era di tanti colori, che si moveva sempre, che era salato, che era spumeggiante. I guerrieri? Portavano i capelli lunghi. I loro caschi? Avevano creste che si movevano al passo. Le loro aste? Facevano una lunga ombra. Per non essere frainteso ripeteva il medesimo pensiero con altra forma: diceva "un pochino, mica tanto!", "vivere, mica morire!", e anche "parlò e disse", "si adunarono e furono tutti in un luogo".
Non mancava di quelle spiegazioni che chiudono la bocca: "ubbidite, perché ubbidire... è meglio" "solo devo rimanermene senza dono? Non sta bene". La chiarezza non è mai troppa: "I pulcini erano otto, e nove con la madre, che aveva fatti i pulcini", "Aias, quello più piccolo, non grande come l'altro, ma molto più piccolo: era piccino...". Qualche volta riusciva sublime, ma senza farlo apposta: saltava qualche circostanza, per giungere a ciò che importava più e che era più sensibile. Un divino arciere tirava l'arco "e per tutto si vedevano cataste accese per bruciare i morti". Il dio supremo mosse il sopracciglio e scosse i capelli, "e scrollò l'Olimpo che è così grande". Sopra tutto, per far capire tutto il suo pensiero, in qualche fatto o spettacolo più nuovo e strano, s'ingegnava con paragoni tolti da ciò che esso e i suoi uditori avevano più sott'occhio o nell'orecchio. E in ciò teneva due modi contrari: ora ricordava un fatto piccolo per farne intendere uno grande, ora uno maggiore per farne vedere uno minore. Così rappresentava un mare agitato che con le grosse onde spumeggianti si getta contro la spiaggia, e strepita e tuona, per dar l'idea d'una moltitudine d'uomini che accorre in un luogo; e descriveva uno sciame di mosche intorno ai secchielli pieni colmi di latte, per esprimere il confuso e vasto agglomerarsi d'un esercito di guerrieri.
Questo era il suo solo artifizio, se pure si può chiamare artifizio ciò ch'egli faceva così ingenuamente che spesso la cosa, mediante il suo paragone, riusciva più piccola, sebbene sempre paresse più chiara; come quando confrontava il fluido parlare di alcuni vecchi savi all'incessante frinire delle cicale, o la resistenza d'un grande eroe all'indifferenza d'un asino che seguita a empirsi d'erba nel prato donde i bimbi vogliono cacciarlo a suon di bastonate. No no: il fanciullino del cieco non tanto voleva farsi onore, quanto farsi capire: non esagerava; perché i fatti che raccontava, gli parevano già assai mirabili così come erano. Ed egli sapeva, né per altro argomento se non perché parevano anche a lui, che mirabili dovevano parere anche agli altri bambini come lui, che erano nell'anima di tutti i suoi uditori. I quali ora come allora lo ascoltano con maraviglia. E non sarebbe ragionevole, di cose che dopo trenta secoli non si credono più verosimili. Ma dopo pur trenta secoli gli uomini non nascono di trent'anni, e anche dopo i trent'anni restano per qualche parte fanciulli.



III


Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine. Egli non avrebbe dentro sé quel seno concavo da cui risonare le voci degli altri uomini; e nulla dell'anima sua giungerebbe all'anima dei suoi vicini. Egli non sarebbe unito all'umanità se non per le catene della legge, le quali o squassasse gravi o portasse leggiere, come uno schiavo o ribelle per la novità o indifferente per la consuetudine. Perché non gli uomini si sentono fratelli tra loro, essi che crescono diversi e diversamente si armano, ma tutti si armano, per la battaglia della vita; sì i fanciulli che sono in loro, i quali, per ogni poco d'agio e di tregua che sia data, si corrono incontro, e si abbracciano e giocano.
Eppure è chi dice che veramente di generi umani ve ne ha due, e non si scorge che siano due, e che l'uno attraversa l'altro, sempre diviso ma sempre indistinto, come una corrente dolce il mare amaro. Vivono persino nelle stessa famiglia, sotto gli occhi della stessa madre, e vivono in apparenza la stessa vita germinata da uguale seme in unico solco; e questi sono stranieri a quelli, non d'un solo tratto di cielo e di terra, ma di tutta l'umanità e di tutta la natura. Essi si chiamano per nome e non si conoscono né si conosceranno mai. Ora se questo è vero, non può avvenire se non per una causa: che gli uni hanno dentro sé l'eterno fanciullo, e gli altri no, infelici!
Ma io non amo credere a tanta infelicità. In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché con le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei (7). Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva (8). Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l'amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta.
C'è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell'officina piena di fracasso e senza sole. Ma in tutti è, voglio credere.
Siano gli operai, i contadini, i banchieri, i professori in una chiesa a una funzione di festa; si trovino poveri e ricchi, gli esasperati e gli annoiati, in un teatro a una bella musica: ecco tutti i loro fanciullini alla finestra dell'anima, illuminati da un sorriso o aspersi d'una lagrima che brillano negli occhi de' loro ospiti inconsapevoli; eccoli i fanciullini che si riconoscono, dall'impannata al balcone dei loro tuguri e palazzi, contemplando un ricordo e un sogno comune.



IV


Se è in tutti, è anche in me. E io, perché da quando s'era fanciulli insieme, non ho vissuto una vita cui almeno il dolore, che fu tanto, desse rilievo, non l'ho perduto quasi mai di vista e di udita. Anzi, non avendo io mutato quei primi miei affetti, chiedo talvolta se io abbia vissuto o no. E io dico sì, perché ivi è più vita dove è meno morte, e altri dice no, perché crede il contrario. Comunque, parlo spesso con lui, come esso parla alcuna volta a me, e gli dico: Fanciullo, che non sai ragionare se non a modo tuo, un modo fanciullesco che si chiama profondo, perché d'un tratto, senza farci scendere a uno a uno i gradini del pensiero, ci trasporta nell'abisso della verità...
Oh! Non credo io che da te vengano, semplice fanciullo, certe filze di sillogismi, sebbene siano esposte in un linguaggio che somiglia al tuo, e disposte secondo ritmi che sono i tuoi! Forse quei ritmi ce le fanno meglio seguire, quelle filze, e quel linguaggio ce lo fa meglio capire, quel ragionamento; o forse no, ché l'uno, abbagliando, ci distrae, e gli altri, cullando, ci astraggono; sì che il fine del ragionatore non è ottenuto come sarebbe senza quelle immagini e senza quella cadenza. Ma mettiamo che sia: ora il tuo fine non è, credo, mai questo, che si dica: Tu mi hai convinto di cosa che non era nel mio pensiero. E nemmeno quest'altro: Tu mi hai persuaso a cosa che non era nella mia volontà. Tu non pretendi tanto, o fanciullo. Tu dici che in un tuo modo schietto e semplice cose che vedi e senti in un tuo modo limpido e immediato, e sei pago del tuo dire, quando chi ti ode esclama: anch'io vedo ora, ora sento ciò che tu dici e che era, certo, anche prima, fuori e dentro di me, e non lo sapeva io affatto o non così bene come ora!
Soltanto questo tu vuoi, seppure qualche cosa vuoi dal diletto in fuori che tu stesso ricavi da quella visione e da quel sentimento. E come potresti aspirare ad operazioni così grandi tu con così piccoli strumenti? Perché tu non devi lasciarti sedurre da una certa somiglianza che è, per esempio, tra il tuo linguaggio e quello degli oratori. Sì: anch'essi, gli oratori, ingrandiscono e impiccioliscono ciò che loro piaccia, e adoperano, quando loro piace, una parola che dipinga invece di un'altra che indichi. Ma la differenza è che essi fanno ciò appunto quando loro piace e di quello che loro piaccia. Tu no, fanciullo: tu dici sempre quello che vedi come lo vedi. Essi lo fanno a malizia! Tu non sapresti come dire altrimenti; ed essi dicono altrimenti da quello che sanno che si dice. Tu illumini la cosa, essi abbagliano gli occhi. Tu vuoi che si veda meglio, essi vogliono che non si veda più. Il loro insomma è il linguaggio artifiziato d'uomini scaltriti, che si propongono di rubare la volontà ad altri uomini non meno scaltriti; il tuo è il linguaggio nativo di fanciullo ingenuo, che tripudiando o lamentando parli ad altri ingenui fanciulli. Non è così?...
Fanciullo, dunque, che non ragioni se non a modo tuo, dicendo di quando in quando le sentenze più comuni e più sublimi, più chiare e più inaspettate, tu puoi per altro, in ciò che ti riguarda più da presso, e intendere la mia e dire la tua ragione. Per questo ti parlo con più gravità che io non soglia, e vorrei avere da te una risposta meno... come ho da dire? Infantile?... poetica, che tu non costumi.



V


Tu sai che io ti amo, o mio intimo benefattore, o invisibile coppiere del farmaco nepenthès e ácholon, contro il dolore e l'ira, o trovatore e custode d'un segreto tesoro di lagrime e sorrisi! E sai ancora che io non ti credo, come fanciullo, così irragionevole, né stimo un perditempo l'ascoltarti quando detti dentro. Oh! No, molto ci corre. Sebbene qualche volta, a vedere le tiritere isosillabiche e omeoteleute (non ti spaventare! è come dire "versi rimati") con le quali certi orecchianti vogliono far credere di far l'arte tua, anch'io rischio di pensare, come molti, che codesto parlare cadenzato e sonoro non sia naturale né ragionevole. Ma è un momento. Dimentico quelle tiritere, e dico a te che per quel momento mi fissi tra spaurito e malcontento con codesti occhi che vedono con maraviglia; dico a te:
No no: non temere. Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta. L'uomo le cose interne ed esterne, non le vede come le vedi tu: egli sa tanti particolari che tu non sai. Egli ha studiato e ha fatto suo pro degli studi degli altri. Sì che l'uomo dei nostri tempi sa più che quello dei tempi scorsi, e, a mano a mano che si risale, molto più e sempre più. I primi uomini non sapevano niente; sapevano quello che sai tu, fanciullo.
Certo ti assomigliavano, perché in loro il fanciullo intimo si fondeva, per così dire, con tutto l'uomo quanto egli era. Maravigliavano essi, con tutto il loro essere indistinto, di tutto; ché era veramente allora nuovo tutto, né solo per il fanciullo, ma per l'uomo. Maravigliavano con sentimento misto ora di gioia ora di tristezza ora di speranza ora di timore. Se poi tale commovimento volevano esprimere a sé e ad altri, essi traevano fuori dalla faretra, per dirla con te, certi preziosi e numerosi strali di cui non si doveva far gettito.
Pronunziavano essi, i primi uomini, con lentezza uniforme, con misurata gravità, la difficile parola che stupivano volasse e splendesse e sonasse, e fosse loro e diventasse d'altri, e recasse attorno l'anima di chi la emetteva dopo la lunga silenziosa meditazione. Oh! non le gettavano essi come cose vili che soprabbondano, le parole pur mo nate, legate coi più sottili nodi, segnate con le più vive impronte, lavorate coi più ingegnosi nielli! Ne vedevano essi tutti i pregi, e il peso e il timbro del loro metallo, e il suono col quale in principio rompevano dalle labbra schiudentisi, e quello col quale in fine ronzavano nelle orecchie aperte. Or tu, fanciullo, fai come loro, perché sei come loro.
Fai come tutti i bambini i quali non solo, quando sono un po' sollevati, giocano e saltano con certe loro cantilene ben ritmate, ma quando sono ancora poppanti, e fanno la boschereccia, con misura e cadenza balbettano tra sé e sé le loro file di pa pa e ma ma.
E in ciò è ragione perché è natura. Tu sei ancora in presenza del mondo novello, e adoperi a significarlo la novella parola. Il mondo nasce per ognun che nasce al mondo. E in ciò è il mistero della tua essenza e della tua funzione. Tu sei antichissimo, o fanciullo! E vecchissimo è il mondo che tu vedi nuovamente! E primitivo il ritmo (non questo o quello, ma il ritmo in generale) col quale tu, in certo modo, lo culli o lo danzi! Come sono stolti quelli che vogliono ribellarsi o all'una o all'altra di queste due necessità, che paiono cozzare tra loro: veder nuovo e veder da antico, e dire ciò che non s'è mai detto e dirlo come sempre si è detto e si dirà!
E si ribellano, gli uni con gli schifi gesti di pedanti: Questa metafora non è in... (e qui il nome d'un poeta a mano a mano più recente); gli altri con pugnaci atteggiamenti di novatori: Questo non è assai inaudito e inaudibile! Quelli sono in generale vecchi che nella vecchiaia credono riposta ogni autorità; e questi, giovani che nella giovinezza imaginano insita ogni forza; più noiosi questi di quelli, perché l'un vanto è sempre con impertinenza, e l'altro non è mai senza tristezza, e perché se gli uni non intendono più, per senile sordità, l'arguto chiacchiericcio del fanciullo, gli altri non lo intendono ancora, per quello schiamazzare che fanno, miseramente orgoglioso, intorno al loro io giovane. E, in verità, giovani non sono, ché d'essere, se fossero, non si accorgerebbero. D'essere vecchio uno si accorge sì, qualche volta, e allora si veste, si tinge, grida a giovane. È forse il caso di voi, vecchiastri?
A ogni modo, pace. Sappiate che per la poesia la giovinezza non basta: la fanciullezza ci vuole!



VI


Tu sei savio e mi contento. Non vuoi né ripetere il già detto né trovare l'indicibile; non vuoi essere né un'inutilità né una vanità. Vuoi il nuovo, ma sai che nelle cose è il nuovo, per chi sa vederlo, e non t'indurrai a trovarlo, affatturando e sofisticando. Il nuovo non s'inventa: si scopre. Mi contento dunque, a dirla tra noi, vale a dire, tra me... Ma intendiamoci subito: di ciò non ti attribuisco gran lode, perché non ci vedo gran merito. Come? Aspetta e sii paziente, ché mi conviene andar per le lunghe. E prima vorrei farti una domanda. Un fine, l'hai tu? Fuori, s'intende, di quello appunto di dire o dittare? E puoi dirmi, quale? Ho bisogno di saperlo. Non rispondi? Pensi? esiti? dubiti? Imagino che codesto fine non sia, per esempio, quello di dare un po' d'aiuto, di fornire un poco d'oro al tuo vecchio ospite, che ne ha tanto bisogno. Imagino, anzi so che tu non conosci altro oro che metaforico, cioè che non si spende. Ridi? Intendiamoci. So per certo che tu non credi di procacciarmi direttamente un utile materiale, ma sospetto che ti figuri di procacciarmelo indirettamente, aggiungendo non saprei che favore alla mia povera persona e che pregio alle mie umili virtù, sì che l'industria che sai che esercito, mi profitti qualche cosa più.
Ebbene, ti inganneresti. Sappi che è il contrario; e che è ragionevole che sia il contrario. Tu sei un fanciullo: ora non tutti sanno distinguere te fanciullo da me vecchio, e perché mi sentono e vedono bamboleggiare qualche volta, credono volentieri che io bamboleggi sempre, anche quando lavoro sul serio, per guadagnarmi la vita. Per ciò essi meno apprezzano quei lavori serii, e io minor utile ne ricavo.
E hanno torto. Sempre? Sappi che non hanno torto sempre.
Hanno, per esempio, ragione (né parlo soltanto di me, ma di molti altri), quando tra i miei ragionamenti, che non dovrebbero essere se non giusti e chiari, vedono comparire i tuoi sorrisi e le tue grida. Vedi: i passeri sono graziosi uccelli (anch'essi: perché no?); ma nei seminati i contadini non ce li vogliono, per graziosi che siano. Le spadacciole sono bellissimi fiori; ma tra il grano sarebbe molto meglio che non ce ne fosse. Ma fanno così bel vedere! Non nego che possano dilettare qualcuno: non dilettano però colui che spera l'utile di quel grano. Capisci? Se anche c'è qualcuno a cui piacciono i tuoi frulli e i tuoi lampeggiamenti in mezzo a un ragionare che avrebbe a essere serio, ai più non può essere che non dispiaccia.
E sai che cosa succede? Questi, trovandoti così fuori di posto, non pensano che tu sia il fanciullo dalla voce argentina, ma credono sentire in te l'uomo roco, l'uomo che parla per ingannare: e gridano Retorica! Ora per evitare tale scambio a te e tale danno a me, non sarebbe male che quando io bado ai fatti miei, tu te ne andassi lontano e dormissi nei profondi boschi d'Idalia e tra l'odoroso cespuglio dell'amaraco. Se tu conoscessi Platone, ti direi che come egli ha ragione nel volere che i poeti facciano mythous e non logous, favole e non ragionamenti, così non ho torto io nel pretendere che i ragionatori facciano logous e non mythous (9). Ma pur troppo è difficile trovare chi si contenti di far solo quello che deve. E Platone stesso... Ma egli era Platone.
Tornando a noi, dunque, nessun utile né diretto né indiretto mi viene da te, o fanciullo. Checché tu possa dire, nessuno. Quale invero sarebbe? Parla!



VII


IL FANCIULLO
A te né le gemme né gli ori
fornisco, o dolce ospite: è vero;
ma fo che ti bastino i fiori
che cogli nel verde sentiero,
nel muro, su le umide crepe,
su l'ispida siepe.

Non reco al tuo desco lo spicchio
fumante di pingue vitella;
ma fo che ti piaccia il radicchio
non senza la tua selvastrella,
con l'ovo che a te mattutina
cantò la gallina.

Per me tu non ari, o poeta,
né vigne sassose, né grasse
maggesi; ma dimmi se più
di vigne e maggesi s'allieta
quel cupo signore, od il passero
garrulo e tu!

Non fragili coppe di Cina,
la lampada d'oro t'irradia;
ma tu la tua scabra cucina
tu ami e la provvida madia;
la fiamma che lustra, tu ami,
sui nitidi rami.

Non hai che dal ciglio ti penda,
né paggio né florida ancella;
ma lieta, ma grata sfaccenda
per te la tua dolce sorella;
che cinge il grembiule, e sorride;
lo scinge e s'asside

con te...E per letto di morte,
che a tutti è sì duro e sì grave,
che cosa ti serbo, sai tu?
Oh! Rose per letto di morte,
cadute dal pruno: il soave
dolore che fu!



VIII


Bene! Tu hai cantato e detto: hai cantato strofe e detto verità. E mi viene in mente che oltre codeste verità, diremo così, usuali, di cui io ti sono testimone, ci sia sotto il tuo dire una verità più riposta e meno comune, a cui però la coscienza di tutti risponda con subito assenso. Quale? Questa: che la poesia, in quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale. E tu non hai mica ragionato, per rivelare a me il tuo fine. Tu hai detto quel che vedi e senti. E dicendo questo, hai forse espresso quale è il fine proprio della poesia. Ora tocca a me ragionarci sopra, Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobigliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza; e vai dicendo.
O è il contrario? E il pastore che, parando le pecore, sogna una bottega da avviare nel borgo vicino, e il borghesuccio che fantastica d'un palazzo in città grande e rumoreggiante, sono, essi sì, poeti fantasiosi e sognatori, e gli altri no? Già, per me, altro è sentimento poetico, altro è fantasia; la quale può essere bensì mossa e animata da quel sentimento, ma può anche non essere. Poesia è trovare nelle cose, come ho da dire? Il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima.
A volte, non ravvisando essi nulla di luminoso e di bello nelle cose che li circondano, si chiudono a sognare e a cercare lontano. Ma pur nelle cose vicine era quello che cercavano, e non avervelo trovato, fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi. Direte voi (non parlo a te, ora, o fanciullo, ma a cotali fanciulloni), direte voi che il sentimento poetico abbondi più in chi, torcendo o alzando gli occhi dalla realtà presente, trovi solo belli e degni del suo canto i fiori delle agavi americane, o in chi ammiri e faccia ammirare anche le minime nappine, color gridellino, della pimpinella, sul greppo in cui siede? E non voglio dire che non abbondi nel primo, quel sentimento, e non si trovi anzi unito ad altre virtù di scienza e di fantasia che lo facciano giustamente ammirabile; sebbene, come più agevolmente muove, così più presto annoia il suo lettore, e, a ogni modo, poiché le cose assenti, o non viste mai, sono sempre a tutti meravigliose, egli fa come l'uomo che pretende d'aver rallegrato con sue novellette l'uditore che, pure ascoltando, abbia bevuto largamente del vino letificante. Egli è stato, forse, arguto e festevole; ma chi rallegra con la parola sua schietta, senza bisogno di calici, ha maggior merito.
Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove. E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggiero freno all'instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità. Oh! chi sapesse rafforzarlo in quelli che l'hanno, fermarlo in quelli che sono per perderlo, insinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque più ingegnoso trovatore di comodità e medicine? E non so dire quanto la comunione degli uomini ne sarebbe avvantaggiata; specialmente in questi tempi in cui la corsa verso l'impossibile felicità è con tanto fulmineo disprezzo in chi va avanti, con tanta disperata invidia in chi resta addietro. Già in altri tempi vide un Poeta (io non sono degno nemmeno di pronunziare il tuo santo nome, o Parthenias!), vide rotolare per il vano circolo della passione le quadriglie vertiginose; e quei tempi erano simili a questi, e balenava all'orizzonte la conflagrazione del mondo in una guerra di tutti contro tutti e d'ognuno contro ognuno; e quel Poeta sentì che sopra le fiere e i mostri aveva ancor più potere la cetra di Orfeo che la clava d'Ercole. E fece poesia, senza pensare ad altro, senza darsi arie di consigliatore, di ammonitore, di profeta del buono e del mal augurio: cantò, per cantare. E io non so misurare qual fosse l'effetto del suo canto; ma grande fu certo, se dura sino ad oggidì, vibrando con dolcezza nelle nostre anime irrequiete.
O rimatori di frasi tribunizie, o verseggiatori di teoriche sociali, che escludete dall'ora presente ogni poesia che non sia la vostra, vale a dire, escludete la POESIA, ditemi: Era o non era al suo posto, nel secolo d'Augusto, il cantore delle Georgiche? Sì, non è vero? Egli insegnava ad amare la vita in cui non fosse lo spettacolo né doloroso della miseria né invidioso della ricchezza: egli voleva abolire la lotta tra le classi e la guerra tra i popoli. Che volete voi, o poeti socialisti, che dite cose tanto diverse e le dite tanto diversamente da lui?



IX


Dei due fraterni poeti Augustei (ché non si può parlare di Virgilio senza soggiungere Orazio) voi direte che fu la filosofia che li addusse a quella ragione sana e pia di considerare la società e la vita. E no: fu il fanciullino che li portò per mano, dicendo: Vi dirò io dove è nel tempo stesso la poesia e la virtù. Fu il fanciullino che, se mai, fece che trascegliessero tra le opinioni dei filosofi quelle che confermavano il loro sentimento.
Considerate. Catone e Varrone scrissero di agricoltura prima di Virgilio. Erano uomini di molto giudizio e sapere, essi. Per esempio, Catone, suggerendo al pater familias che cosa deve dire e fare, quando si reca alla villa, conclude: "Venda l'olio, se si vende bene; il vino, il frumento che avanzi, lo venda. I buoi incaschiti, le fattrici non più buone, così le pecore, la lana, le pelli, un barroccio vecchio, ferramenti vecchi, uno schiavo attempato, uno schiavo ammalazzito, e altra roba che ci sia di troppo, la venda. Un padre di famiglia deve tirare a vendere, non a comprare" (10). Quegli schiavi, tra la ferraglia vecchia e l'altra roba d'avanzo, a noi fanno un certo senso; eppure era naturale che si nominassero a quel punto. Varrone in fatti riferisce questa elegante distinzione delle cose con le quali si coltivano i campi: "Altri le dividono in tre generi: strumento vocale, semivocale e muto; vocale in cui sono gli schiavi, semivocale in cui sono i bovi, muto in cui sono i carri" (11). È naturale, s'intende, che Virgilio scrivendo di proposito sull'agricoltura, in versi bensì ma non a fantasia, in versi ma dopo aver studiato l'argomento anche sui libri degli altri, parlasse a ogni momento, oltre che dei plaustri e dei bovi, di quello strumento precipuo della coltivazione che erano gli schiavi. Noi, per esempio, dobbiamo aspettarci che come insegna quale profenda dare, erbe in fiore e biada, al polledro da razza (12), e ai manzi in tanto che si domano, non sola erba a frasche di salcio e paleo di palude, ma anche piantine di grano appena nato (13); così ammaestri il buon massaio sul pane e companatico, vino e vestimenta, da fornirsi alla familia.
Parlando di olive, è certo che egli penserà al pulmentarium familiae. Catone, gran maestro, dice pure (14): "Indolcisci quanto più puoi, di olive caschereccie. Quindi le olive anche buone, da cui non possa uscire che poco olio, indolciscile: e fanne grande risparmio, perché durino il più possibile. Quando le olive saranno mangiate, dà allec e aceto". Tornava bene, mi pare, discorrere di codeste olive da riporre per gli schiavi, e così anche dei vestimenti; ché poteva cadere in taglio, a proposito della lana, fare per esempio un'osservazione di tal genere: "quando a uno schiavo dài una tunica o un pastrano nuovo, prima ritira il vecchio, per farne casacche a toppe (centones)". Insomma queste e simili provvidenze erano buone a mettersi in bei versi con quel tanto garbo del poeta che sa parlare con solennità e gravità di umili cose.
Oh! Sì! Non ci sono schiavi per Virgilio. Nei suoi poemi non c'è mai nemmeno la parola servus; c'è serva due volte, e a proposito di altri tempi e di altri costumi (15) : tempi e costumi in cui il poeta vede bensì i re serviti da molti schiavi; eppur chiama questi famuli e ministri non servi (16). Ma i suoi campi, quelli che esso insegnava a coltivare, quelli che arava e seminava con i suoi dolci versi, quelli non hanno gente incatenata e compedita. Il poeta che nella prima delle ecloghe pastorali mette sé in persona d'uno schiavo liberato, ha proclamato nelle compagne italiche quella parola che con tanta enfasi suona dalla sua bocca di Titiro: LIBERTAS (17). Gli agricoli di Virgilio né sono schiavi né mercenari. Essi sono di quelli di cui parla Varrone (18), che coltivano la terra da sé, come tanti possidentucci con la loro figliolanza. Questi ha in mente Virgilio, quando esclama che sarebbero tanto felici, se conoscessero la loro felicità, con tanta pace, con tanto fruttato, tra tanto bello, senza il rodio o della miseria o della soverchianza altrui, lavorando alla sua stagione, godendosi la famiglia in casa e le care feste fuori (19). Di gente che lavori per altri, nemmeno una traccia.
L'ideale del poeta è quel vecchiettino Cilice, trapiantato dalla sua patria nei dintorni di Taranto. Aveva avuto pochi iugeri di terra non buona né a grano né a prato né a vigna: una grillaia, uno scopiccio. Ebbene il bravo vecchiettino ne aveva fatto un orto, con non solo i suoi cavoli, ma anche gigli e rose, e alberi da frutta, e bugni d'api, e vivai di piante (20). Sì: il poco e il piccolo era il sogno dei due grandi fraterni poeti. Virgilio diceva: Loda la campagna grande, e tienti alla piccina (21). E Orazio: Questo era il mio voto: un campicello non tanto grande, con l'orto, con una fonte, e per giunta un po' di selvetta (22). Chi non dovrebbe preferire la campagna grande alla piccola, quando non toccasse di coltivarla a lui? Ma ai due poeti, quando erano poeti, non si presentava al pensiero questa considerazione così semplice. A dir meglio, il fanciullo che era in loro, preferiva, come tutti i fanciulli, ciò che è piccolo: il cavallino, la carrozzina, l'aiolina. Oh! c'è chi ha rimproverato a Orazio quest'amor della mediocrità! Ma esser poeta della mediocrità, non vuol dire davvero essere poeta mediocre. Il contrario, anzi, è vero. Non ama, chi dice di amare un serraglio di donne. Non è poeta, chi non si fissa in una visione che i suoi occhi possano misurare.
E le cose grandi, le cose ricche, le cose sublimi non riescono poetiche, se non sono sentite e dette in persona di chi stupisce avanti loro, perché appunto esso è piccolo, è povero, è umile. Il poeta è il poverello dell'umanità, spesso anche cieco e vecchio. E se tale non sembra, se anzi è gran signore e giovane e felice, ebbene vuol dire che se è ricco lui, è pauperculus però il fanciullino che è in lui; cioè si è conservato povero, come a dire fanciullo. Perché poverino è sempre il bimbo, sia pur nato in una culla d'oro, e tende sempre la mano a tutto e a tutti, come non avesse niente e desidera il boccon di pan duro del suo compagno trito, e vorresse fare il duro lavoro del suo compagno tribolato. Per questo non Virgilio proprio, ma il fanciullo che egli aveva in cuore, non voleva gli schiavi nei campi. Diremo noi che Virgilio attingesse dai libri di qualche filosofo o di qualche profeta questa legge di libertà? No: egli stesso ne era forse inconsapevole, di questa libertà che proclamava. Era la sua poesia che aboliva la servitù, perché la servitù non era poetica.
Non era poetica, e il divino fanciullo che non vede se non ciò che è poetico, non la vedeva. Tanto che noi, se non avessimo dei tempi di Virgilio altro testimone che Virgilio, dovremmo credere che non esistesse allora più questa miseria e vergogna che non è cessata nemmeno ai nostri, di tempi. Oh! Dovremmo credere che il Cristo non anco nato ispirasse al poeta contadino dell'Esperia, come il vaticinio del suo avvento, così il presentimento della grande fratellanza umana! Non c'è la schiavitù nell'Italia Virgiliana: nemmeno c'è il salariato, nemmeno il mezzadro!



X


Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza andarsene, portando, per dirla con Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si avrebbe a dire, umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l'umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l'impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l'estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato filosofo. È il fanciullo interiore che ne ha schifo. Il quale come narrando le imprese dei suoi eroi, e dicendo tutto di loro, e, oltre le battaglie e i discorsi, anche i pasti e i sonni, e figurando a noi, per esempio, i loro cavalli, e ridicendo che brucavano e sudavano e spumavano, pur non dice mai (tu vedi che procuro quanto posso, che tu non torca il niffolo) non dice mai che stallavano; così della nostra anima non racconta che il buono e della nostra visione non ricorda che il bello. Ché per cantare il male bisogna fare uno sforzo continuo su se stesso, a meno che non si tratti di pazzia. E in questo caso, la pazzia sta appunto in questo, di pensar da buoni e cantar da cattivi.
Così, caro fanciullo, hanno gran torto coloro che attribuiscono, per ciò che tu non vedi se non il buono, qualche merito di bontà a colui che ti ospita. Il quale può essere anche un masnadiero, e aver dentro sé un fanciullo che gli canti le delizie della pace e dell'innocenza, e la casa dove non deve più riposare, e la chiesa dove non sa più pregare.



XI


Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d'amor patrio e familiare e umano. Quindi la credenza e il fatto, che il suon della cetra adunasse le pietre a far le mura della città, e animasse le piante e ammansasse le fiere della selva primordiale; e che i cantori guidassero e educassero i popoli. Le pietre, le piante, le fiere, i popoli primi, seguivano la voce dell'eterno fanciullo, d'un dio giovinetto, del più piccolo e tenero che fosse nella tribù d'uomini salvatici. I quali, in verità, s'ingentilivano contemplando e ascoltando la loro infanzia.
Così Omero, in tempi feroci, a noi presenta nel più feroce degli eroi, cioè nel più vero e poetico, in Achille, un tipo di tal perfezione morale, che poté servire di modello a Socrate, quando preferiva al male la morte. Così Virgilio, in tempi più gentili, avendo la mira soltanto al poetico, ci mostra lo spettacolo tanto anticipato, ahimè!, d'un'umanità buona, felice, tutta al lavoro e alle pure gioie dei figli, senza guerre e senza schiavi. Gli uomini, al suo tempo, parrebbe che avessero impetrato, ciò che è ancora il desiderio inadempiuto de' nostri operai, le otto ore di lavoro per ogni otto di sonno e altre otto di svago. - Oh! qualche volta presso lui il contadino aggiunge la notte al giorno! - Sì : ma che dolcezza di lavoro, quella, tra l'uomo che col pennato fa il capo a spiga a suoi rami di pino, che hanno a essere fiaccole, e la donna che o tesse la tela o schiuma il paiolo cantando (23). E nell'Eneide Virgilio canta guerre e battaglie; eppure tutto il senso della mirabile epopea è in quel cinguettio mattutino di rondini o passeri, che sveglia Evandro nella sua capanna, là dove avevano da sorgere i palazzi imperiali di Roma! (24)
Ma Omero, ma Virgilio, non lo facevano apposta.
Ma il poeta non deve farlo apposta.
Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. È, per usare imagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell'anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali?
Senza accorgersene, se mai.
Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l'ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro.
Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso.
Perché pensi alla patria e alla società, bisogna proprio che sia un momento che tutti intorno a lui ci pensino. Se no, è un guaio serio. Quello per la mamma, è il più soave degli affetti. Ma che direste voi d'uno che facesse la cronaca, giorno per giorno, di sua mamma? Stamane s'è levata, cara mamma! Io l'ho guardata, povera mamma! M'ha dato il caffè e latte, povera cara mamma! Costui è un imbecille, quando non è uno che finga e abbia bisogno di darsi l'aria di amare quella che è così facile amare! Oh! la madre è malata, la madre è lontana, la madre è morta! Ecco che allora ci si pensa, alla mamma, e ci si strugge. Oppure la mamma ha una gran consolazione; e noi siamo più che consolati, e ci sentiamo invasi da un impeto di canto.
Così per la patria. Non ci accorgiamo di lei, se non nelle sue feste e nelle sue - nostre! - disgrazie. E allora prorompe anche dal cuore del fanciullo il grido di gioia e il grido di dolore; ed è grido che ha subito mille echi. Ma il bambino non è un bambino che s'impanchi a far lezione quotidiana d'amor patrio o d'amor paterno e materno ai suoi fratellini, e anzi ai suoi zii e nonni. Chi pretende che faccia questo, vuole che il vispo fanciullo sia un vecchio noioso; vuole, insomma, che non esista la poesia. Perché la poesia, costretta a essere poesia sociale, poesia civile, poesia patriottica, intristisce sui libri, avvizzisce nell'aria chiusa della scuola, e finalmente ammala di retorica, e muore. E noi di questa pseudopoesia ne abbiamo tanta, sin da quando, morto Virgilio, invecchiando Orazio, chiusa la grande rivoluzione che cominciò, si può dire, e finì con la morte di due donne, di Giulia e di Cleopatra, la figlia e l'amante di Cesare; ebbene i corvi, quali Pindaro li avrebbe chiamati, si gettarono gracchiando sull'immenso campo di battaglia, per beccare non occhi di uccisi, ma semi di poesia. E che facevano essi? Raccontavano un fatto storico, di quelli ultimi: lo condivano con declamazioni, esclamazioni, maledizioni; e lo mettevano in esametri. Ma anch'essi capivano che non bastano i versi a far poesia: e perciò incorniciavano la loro storia verseggiata e declamata con una descrizione di alba e un'altra di tramonto; e il poema era fatto (25).
Ecco Giulio Montano. Questi era un poeta come tant'altri. A ogni tratto inseriva albe e tramonti. Pertanto, poiché un tale s'era seccato ch'egli avesse recitato per tutto un giorno, e diceva che non si doveva andare alle sue recite; Natta Pinario esclamò: "O che io posso essere più condiscendente con lui? Io sono pronto a starlo a sentire da un'alba a un tramonto!" Voleva dire, il buon Natta, che la seccaggine sarebbe durata poco, e che dopo due o tre versi esso poteva andare pei fatti suoi (26). È inutile. Già Orazio ammoniva che non bastavano le descrizioncelle, le digressioncelle, le belle toppe rosse e gialle, per far di prosa poesia (27). Bisogna che il fatto storico, se vuol divenir poetico, filtri attraverso la maraviglia e l'ingenuità della nostra anima fanciulla, se la conserviamo ancora. Bisogna allontanare il fatto vicino allontanandocene noi (28). Volete una prova a cui distinguere la poesia dalla pseudopoesia, in siffatto genere storico?
Se la narrazione, che il verseggiatore vi fa, vi commuove meno che la stessa, fatta in prosa, dallo storico e dal cronista, dite pure che il verseggiatore ha tradotto, e male; non ha poetato. E ha perduto il suo tempo e ha fatto perdere a noi il nostro.



XII


Ma in Italia la pseudopoesia si desidera, si domanda, s'ingiunge. In Italia noi siamo vittime della storia letteraria! Per vero, né in Italia soltanto, mi pare che delle lettere si sia ingenerato un concetto falso. Le lettere sono gli strumenti delle idee, e le idee fanno di sé tanti gruppi che si chiamano scienze. Ma noi, fissati sugli strumenti, abbiamo finalmente dimenticato i fini. Siamo agricoltori che non pensano se non alle vanghe e non parlano se non di aratri, e più delle loro bellurie che delle loro utilità. Delle semente, della terra, dei concimi, non ci curiamo più. Quindi avviene che abbiamo, come fisici, filosofi, storici, matematici, così letterati; modo di dire, come coltivatori di canapa, di viti, di grano e d'ulivi, così periti di vanghe e d'aratri, i quali non s'occupano di altro, e credono che non ci si debba occupar d'altro, e stimano, io vedo, che la loro sia la più nobile delle occupazioni. E almeno li facessero essi, codesti strumenti: no, li "giudicano" e li "collezionano".
Codest'ozio noi chiamiamo ora critica e storia letteraria. E ognuno può vedere che ci sono cose molto più utili e belle da fare: cioè coltivare e seminare. Ma c'è pure, tra le tante branche della letteratura, la poesia che sta a sé, la poesia che comprende in sé tutto ciò che si dice e scrive per diletto, amaro o dolce, suo o altrui. Questa non è rispetto alle scienze quello che lo strumento rispetto al fine. È una coltivazione, poniamo, anch'essa, ma d'altro ordine e specie. È, poniamo, la coltivazione, affatto nativa, della psiche primordiale e perenne. Ma noi la mettiamo insieme con l'altra letteratura "strumentale", e ne ragioniamo allo stesso modo. La dividiamo per secoli e scuole, la chiamiamo arcadica, romantica, classica, veristica, naturalistica, idealistica, e via dicendo. Affermiamo che progredisce, che decade, che nasce, che muore, che risorge, che rimuore. In verità la poesia è tal maraviglia che se voi fate ora una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono.
Come mai? Così: l'uomo impara a parlare tanto diverso o tanto meglio, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio; ma comincia con far gli stessi vagiti e guaiti in tutti i tempi e luoghi. La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli. Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto. E quindi, né c'è poesia arcadica, romantica, classica, né poesia italiana, greca, sanscrita; ma poesia soltanto, soltanto poesia, e... non poesia.
Sì: c'è la contraffazione, la sofisticazione, l'imitazione della poesia, e codesta ha tanti nomi. Ci sono persone che fanno il verso agli uccelli, e al fischio sembrano uccelli; e non sono uccelli, sì uccellatori. Ora io non so dire quanta vanità sia la storia di codesti ozi. Eccola in due parole. Un poeta emette un dolce canto. Per un secolo, o giù di lì, mille altri lo ripetono fiorettandolo e guastandolo; finché viene a noia. E allora un altro poeta fa risonare un altro bel canto. E per un secolo, o più o meno, mille altri ci fanno su le loro variazioni. Qualche volta il canto iniziale non è né bello né dolce; e allora peggio che mai! Ma in Italia, e altrove, non stiamo paghi a questo compendio. Ragioniamo e distinguiamo troppo. Quella scuola era migliore, questa peggiore. A quella bisogna tornare, a questa rinunziare.
No: le scuole di poesia sono tutte peggio, e a nessuna bisogna addirsi. Non c'è poesia che la poesia. Quando poi gli intendenti, perché uno fa, ad esempio, una vera poesia su un gregge di pecore, pronunziano che quel vero poeta è un arcade; e perché un altro, in una vera poesia, ingrandisce straordinariamente una parvenza, proclamano che quell'altro vero poeta pecca di secentismo; ecco gl'intendenti scioccheggiano e pedanteggiano nello stesso tempo. Qualunque soggetto può essere contemplato, dagli occhi profondi del fanciullo interiore: qualunque tenue cosa può a quelli occhi parere grandissima.
Voi dovete soltanto giudicare (se avete questa mania di giudicare) se furono quelli occhi che videro; e lasciar da parte secento e Arcadia. La poesia non si evolve e involve, non cresce o diminuisce; è una luce o un fuoco che è sempre quella luce e quel fuoco: i quali, quando appariscono, illuminano e scaldano ora come una volta, e in quel modo stesso.
Solamente s'ha a dire che raramente appariscono. Sì: la poesia, detta e scritta, è rara. Proprio rara la poesia pura. Ma c'è la poesia "applicata". La poesia "applicata" è dei grandi poemi, dei grandi drammi, dei grandi romanzi. Ora molto ci corre che questi siano tutta poesia. Immaginate che siano un gran mare, ognuno. Nel mare sono le perle; ma quante? Ben poche; però in quale più, in quale meno. Occorre anche dire che in essi poemi, drammi, romanzi, la poesia pura di rado si trova pura. Faccio un esempio. Una di queste perle, nel grande oceano perlifero che è la divina Comedia, diremo la campana della sera:
Era già l'ora che volge il disio
ai naviganti, e intenerisce il core
lo dì ch'han detto ai dolci amici addio;

e che lo nuovo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si muore.
In questa rappresentazione, che di più poetiche non se ne può trovare (Dante ci rappresenta l'ora in cui ridiveniamo per un momento fanciulli!), il tocco più poetico è l'ultimo. È l'ultimo; sebbene la squilla lontana che piange il giorno che muore, sia di quei tocchi che noi verseggiatori abbiamo fatti tornare a noia, a forza di ripeterli. E così quel suono di squilla può essere stinto e fioco per alcuno, assordato da tanti doppi. Ma tant'è. Orbene: il poeta ha dovuto mettere, per la necessità dell'arte, un pochino di lega nel suo oro puro. Quale? Quel "paia". L'ha dovuto mettere, perché egli racconta un sentimento poetico altrui, sebbene anche di sé. E allora ha detto che la squilla pare piangere, non piange veramente. A un tratto il fanciullo (qui un poco, e molto altrove, molto presso altri), il fanciullo a mezza via si riscuote, e par che si vergogni d'essere fanciullo e di parlar fanciullesco, e si corregge. "Pare, non è, intendiamoci". Ma caro bimbo, lo sapevamo da noi, che la campana non piange, ma par che pianga: anche però il giorno par che muoia, e non muore (29).



XIII


La poesia benefica di per sé, la poesia che di per sé ci fa meglio amare la patria, la famiglia, l'umanità, è, dunque, la poesia pura, la quale di rado si trova. In Italia poi, che è la mia patria (non la tua, o fanciullo: tu sei del mondo, non sei d'ora ma di sempre), in Italia è più rara che altrove. Invero non mai da noi fu amata la poesia elementare e spontanea. Come in genere la nostra letteratura, così in ispecie la nostra poesia ha avuto innanzi sé dei modelli. Noi abbiamo specchiato il nostro stile nell'arte latina, come i latini avevano fatto coi greci. Ciò può aver giovato a dare concretezza e maestà alle nostre scritture; ma quanto a poesia, ciò l'ha soffocata; la poesia non si fa sui libri. Poi amiamo troppo l'ornamentazione; e questo gusto lo dimostriamo specialmente in ciò che meno lo comporta: nella poesia.
Il fanciullino italico non ruzza che ben vestito e ben pettinato: le noci con le quali fa a filetto, devono essere coperte di carta d'oro e d'argento. Noi vogliamo farci sempre onore: invece di badare al giuoco, badiamo a noi: ci stiamo a sentire e ammicchiamo alla nostra ombra. E anche più che a noi, badiamo al pubblico: guardiamo con la coda dell'occhio i grandi che stanno a vederci; e così facciamo tutto senza garbo e senza scioltezza. E siccome, particolarmente ai nostri giorni, tutto da noi si fa a concorso e tutto si dà all'asta e tutto si conclude con la aggiudicazione e la premiazione, così ci proponiamo, più che altro, di sopraffare l'un l'altro e di conquistarci con qualche grazietta il favore dei giudici. Nei giochi dei nostri fanciulli, c'entra per molta parte la gherminella che è cosa da attempati. Sono troppo scaltriti, i nostri fanciulli, e cercano meglio di essere primi, che di esser loro. Perciò la nostra poesia (per chiamarla così) è per lo più d'imitazione, anzi di collezione, e sa di lucerna, non di guazza e d'erba fresca. Noi studiamo troppo, per poetare; ed è superfluo aggiungere che, per sapere, studiamo troppo poco. Mettiamo lo studio ove non c'entra.
O come? Non c'entra nel poetare lo studio? Sì, ma diretto al fine, che Dante mostrò. Virgilio, che è lo studio, conduce Dante a Matelda che è l'arte; l'arte in genere e in ispecie. L'arte di Dante è appunto la poesia. Dunque lo studio condusse Dante alla poesia. Ebbene, Matelda, o la poesia, è nel giardino dell'innocenza, sceglie cantando fior da fiore, ha gli occhi luminosi, purifica nei fiumi dell'oblio e della buona volontà. Ossia, il poeta, mercé lo studio, è riuscito a ritrovare la sua fanciullezza, e puro come è, vede bene e sceglie senza alcuna fatica, sceglie cantando, i fiori che pare spuntino avanti i suoi piedi.
Io, senza insistere sul valore morale del mito tanto esatto e bello, dico, interpretando il poeta per il rispetto artistico, che lo studio deve essere diretto a togliere più che ad aggiungere: a togliere la tanta ruggine che il tempo ha depositata sulla nostra anima, in modo che torniamo a specchiarci nella limpidezza di prima; ed essere soli tra noi e noi. Lo studio deve togliere le scorie al puro cristallo che noi troviamo quasi casualmente; e quel cristallo pur con le scorie val più d'un vetro che noi dilatiamo e formiamo soffiando.
Lo studio deve rifarci ingenui, insomma, tal quale Dante figura sé come avanti Beatrice così rispetto a Matelda; che se dall'una è sgridato e fatto piangere e vergognare come fanciullo battuto, dall'altra è, come bambino che non vuole o non può fare da sé, preso e tuffato nell'acqua e menato a bere alla fonte. Lo studio deve togliere gli artifizi, e renderci la natura. Così dice Dante. La sua arte è impersonata in Matelda, che è la natura umana primordialmente libera, felice, innocente.



XIV


Ma noi italiani siamo, in fondo, troppo seri e furbi, per essere poeti. Noi imitiamo troppo. E sì, che studiando si deve imparare a far diverso, non lo stesso. Ma noi vogliamo far lo stesso e dare a credere o darci a credere di fare meglio. Perciò sovente ci pare che, incastonando la gemma altrui in un anello nostro, noi abbiamo trovata e magari fatta la gemma; e più sovente ci imaginiamo che, dorando la statua di bronzo, quella statua non solo sia più bella, ma diventi opera nostra.
Noi non gettiamo più il martello contro i blocchi di marmo: ci accontentiamo di pulire e lustrare le statue belle e fatte. Al più al più, noi facciamo l'arte di Giovanni da Udine: eleganti stucchi: ma non ricordiamo quel che Giovanni disse, mi pare, a Pietro Aretino che ne lo ammirava: Bambocci vogliono essere!
E le scuole ci legano. Le scuole sono fili sottili di ferro, tesi tra i verdi mai della foresta di Matelda: noi, facendo i fiori, temiamo a ogni tratto d'inciampare e cadere. L'ho già detto: se uno si abbandona alle delizie della campagna, teme che lo chiamino arcade; se un altro si vede avanti un'antitesi, sta un pezzo tra il sì e il no, temendo d'essere chiamato secentista. Mentre la mandra degli imitatori si butta alla rinfusa dietro qualche ariete maggiore, e tutti si mettono a belare o mugliare a un modo; sì che in certi tempi pare che gl'italiani (giudicandoli da quelli che scrivono in versi) non abbiano che l'amica, in certi altri non abbiano che la mamma; i poeti veri sono pieni del contrario affetto: vogliono cioè non essere imbrancati né nel verismo né nell'idealismo né nel simbolismo. Queste preoccupazioni li rendono troppo circospetti, troppo irresoluti, troppo sforzati. E Matelda si allontana da loro, facendo echeggiare sempre più lungi il suo dolce salmo che finisce per confondersi con lo stormir delle foglie e col gorgoglio del ruscello, e morire.
Ma poi per la poesia vera e propria, a noi manca, o sembra mancare, la lingua.
La poesia consiste nella visione d'un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi.
Guardate i ragazzi quando si trastullano seri seri. Voi vedete che hanno sempre alle mani cose trovate per terra, nella loro via, che interessano soltanto loro e che perciò sol essi sembrano vedere: chioccioline, ossiccioli, sassetti. Il poeta fa il medesimo. Ma come chiamare questi lapilli ideali, questi cervi volanti della sua anima? Il nome loro non è fatto, o non è divulgato, o non è comune a tutta la nazione o a tutte le classi del popolo. Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono de' fanciulli la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S'ha sempre a dire uccelli, sì di quelli che fanno tottavì e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori o fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi?
Ora se vi provate a dire il nome proprio loro, ecco che il nome di Linneo non va, per cento ragioni, e il nome popolare varia, quando c'è, da regione a regione, anzi da contado a contado. Se il popolo italiano badasse a queste tali cose, fiori, piante, uccelli, insetti, rettili, che formano per gran parte la poesia della campagna, il nome che esse hanno in una terra, avrebbe finito per prevalere su quello dominante in altre. Ma gl'italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorio dell'elmo di Scipio, non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule. E così il poeta, se vuol poetare, bisogna che si lasci ogni tanto dire: "E questo che è? Che vuol dire? O poeta saccente e seccante!" E tuttavia così il poeta deve fare, e lasciar dire così, sperando, se non altro, che se ne avvantaggino i poeti futuri, i quali troveranno divulgati tanti nomi prima ignoti e perciò chiamati oscuri. In verità non è egli l'Adamo che per primo mette i nomi? Così deve operare, facendo a ogni momento qualche rinunzia d'amor proprio. Perché l'arte del poeta è sempre una rinunzia.
Ho detto che deve togliere, non aggiungere: e ciò è rinunzia. Deve fare a meno di tanti ghirigori, così facili a farsi, di tante bellurie, così piacevoli alla vista, di tante dorature, che danno tanta idea della propria ricchezza: e questa è rinunzia. Deve lasciar molto greggio e molto imperfetto. Oh! Come è necessaria l'imperfezione per essere perfetti! Lo sapeva anche Marziale che derideva quel Matone che voleva dir tutto belle. Di', egli esclama, qualche volta soltanto bene, anche né ben né male, magari male! La continua eleganza è sommamente stucchevole. È come quel pranzo descritto dal De Amicis nel Marocco, che tutto vi sapeva di pomata. Questa bellezza in tutto e per tutto è totalmente antipoetica; ché la poesia è ingenuità; e quel fanciullo, che ogni cosa che fa e dice, la fa con una moina e con una smorfietta, e la dice con parolucce smaccate e dolciate; che scapaccioni chiama quel fanciullo consapevole della sua fanciulleria!



XV


Con tutto questo, che speri tu? Che fine hai? Ritorno, come vedi, al primo detto. Essere utile a me? No, s'è detto. Recar utile agli altri? S'è detto che, se mai, non lo fai apposta: dunque non è il fine tuo, codesto. Dilettar te stesso? Ecco: se questo fosse il tuo fine, tu chiuderesti dentro te la tua visione, e te la godresti tra te e me, senza quei tanti struggimenti che ci sono per comunicare la visione agli altri. O dunque?
La gloriola... O povero fanciullo!
Pensa, o fanciullo, quante altre cose potrei fare con maggiore rispondenza a codesto fine. Da condurre un esercito a volare sulla bicicletta, tutto, o quasi tutto, meglio porta alla meta della vittoria e della gloria. Ma poniamo che ci si arrivi anche "sulle ali del canto". Qual disgrazia sarebbe mettersi in questa via, e per te e per me! Prima di tutto, ne andrebbe molto tempo. La gloriola vuole mutui uffici. Io devo conversare, e per lettere e a voce, sì con quelli che coltivano medesimi campi, e chieder loro e averne notizie sull'efficacia d'un concime che usiamo, e dar loro e riceverne auguri e rallegramenti per un buon raccolto che speriamo d'avere o abbiamo avuto; sì con quelli che professano soltanto di fornir le pianticelle, i semi, i concimi chimici, gli strumenti agricoli, a mano e a vapore. Quanto studio, quanta diligenza e pazienza si richiede per siffatta coltivazione! Bisogna raccattare tutti i cocci, come fanno i contadini, per seminarci e trapiantarci le tante pianticelle; anche i caldani rotti raccattiamo; anche quei vasi, dove cresceva il garofano di Geva contadinella. E star sempre lì ad annaffiare, a mondare, a potare; e sbirciare i vasi del vicino, e struggerci ch'egli abbia papaveri più grandi e girasoli più vistosi, e buttare a lui il malocchio, e contro il malocchio di lui tener molta ruta, e guardare che non ci si secchi.
Ma tu dirai: Anche il tempo si raccatta! Bene: parliamo d'altro. Non miete, chi non s'inchina. Ora, per la gloriola, ci s'inchina troppo, tanto umile sovente è la pianticella, e ci s'inchina troppo spesso, tante sono. Voglio dire che la nostra anima (l'anima, intendi!) si deforma, si fa gobba, come è la schiena dei poveri contadini che s'inchinano per il grano. E tu devi essere dritta, serena, semplice, o anima mia!Non c'è forse sentimento al mondo, nemmeno l'avidità del guadagno, che sia tanto contrario all'ingenuità del poeta, quanto questa gola di gloriola, che si risolve in un desiderio di sopraffazione! Quanto sei preso da questo morbo, tu (ma tu non c'entri, allora), io, non cerco il poetico, il buono e il bello, ma il sonante e l'abbagliante. Oh! non cerco allora i lapilli, i nicchi, i fiori per la mia via, ma veglio inquieto spiando i quaderni altrui, magari leggendo di sulle spalle dello scrittore ciò che egli scrive. Allora io smetto il mio verso, e mi metto a far quello d'altri: come un merlo noioso che canta, in questo mentre, non le sue arie mattinali di bosco, ma la ritirata: perché, se non per voglia di gloriola, nel suo padrone e forse in lui? O merlo dal becco giallo, tu hai voluto esser troppo furbo! Come puoi credere che il tuo "Io ti vedo!" che risonava tra il cader della guazza, sia peggio di codesto insopportabile "Ritirati cappellon!"?
Ma è pur vero che "merlo" vuol dire sì furbo e sì il contrario! O anche, insistiamo troppo su un nostro verso o motivo o vezzo o genere, che sia una volta piaciuto; e riusciamo stucchevoli; non basta; diventiamo falsi. Imitiamo da noi medesimi, col vetro d'un bicchiere, il diamante puro che una volta trovammo. E sempre, pensando o scrivendo, siamo distratti dalla preoccupazione dell'effetto: che ne diranno? Vincerò, con questo, il tale o il tal altro? E la tua grazia, che non è grazia se non è spontanea, si perde per sempre. Tu non vedi più giusto e limpido; anzi non guardi più; seppure, ciò che sarebbe peggio, non guardi, come ho detto, negli altri, e non baratti le vesti e magari l'anima con altri, che tu veda o creda più pregiati di te!



XVI


Non pensare alla gloriola, fanciullo: non è cosa da te. Ella è troppo difficile, o facile, a raggiungersi. Difficile: non ho già detto quanto è raro che t'intendano? Tu non fai se non scoprire il nuovo nel vecchio. Gli altri, ossia i tuoi lettori e uditori, che non dovrebbero dire o pensare se non: "Come è vero! E io non ci avevo pensato". Ma questo assentimento non ti vien sempre e nemmeno spesso. Gli occhi della gente sono oggi così fissi nell'ombelico della propria persona, che non hanno visto, si può dire, altro. E perché hanno le luci velate dalla catalessi del loro egoismo, dicono che sei tu oscuro. Puoi, quanto tu voglia, descrivere un mattino, per esempio, in campagna: chi non l'ha mai veduto sorgere, il sole, né in campagna né in città, non capisce e non approva nulla di ciò che dici. Sei inoltre oscuro, sovente per un'altra ragione: perché sei chiaro. Sono tanto avvezzi i lettori oggi alle girandole, agli andirivieni, ai viluppi dei pensieri e sentimenti; perché gli autori, attingendo questi e quelli di sui libri, s'ingegnano con gli stucchi e gli ori a dar loro un aspetto nuovo, o fanno come le lepri, le quali, per nascondere al cacciatore le loro tracce, si mettono a girare e pestare su esse; sono i lettori tanto abituati ai misteri o gherminelle degli autori, i quali, troppo comodi, vogliono perpetuamente che s'intenda dagli altri meglio che da lor si ragioni; che quando tu dici nel tuo semplice modo le tue semplici cose, ecco che non ti capiscono più.
Essi cercano in te quello che non c'è, e perché non lo trovano, ci rimangono male. E se anche ti capiscono, vale a dire se capiscono che non vuoi dire se non quel che dici, e non sottintendi nulla, e non hai la pretesa, assurda e comune, che il senso, nelle tue cose, ce lo mettano i lettori, allora i più non ti apprezzano. Ai più pare che il bello sia nei fregi e che il poetico sia nella foga oratoria, E infine, quasi tutti, come vuoi che ascoltino lo stormire delle foglie o il gorgoglio del ruscello o il canto dell'usignuolo o il suono della tua avena, se lì presso la banda del villaggio assorda la campagna coi tromboni e i colpi di gran cassa?
No no, fanciullo. La gloria o gloriola si forma con l'assenso di molti, e tu non sei udito, ascoltato, approvato, che dai pochi. È vero che tu ti rivolgi a tutti, ma ricordati: non agli uomini proprio, ma ai fanciulli, come te, che sono negli uomini. Ora codesti fanciulli, dato che in nessuno manchino, in pochi però prestano ascolto. E sai quali sono questi pochi? Sono generalmente poeti. Cioè il loro fanciullo, o ti sta a sentire solo perché anch'esso canta e vuol sapere se tu canti meglio o peggio di lui, o standoti a sentire finisce con cantare anche lui. E che succede? Succede che un giorno o l'altro comincia a fare il tuo verso. Prima fa solo qualche nota, poi qualche battuta, infine tutta la tua canzone. E allora? Allora diventa tuo imitatore. Ebbene? Ebbene l'imitatore è un debitore; e il debitore, presto o tardi, parlerà male del creditore. E così, anche di quei pochi, molti si sottrarranno dal dir le tue lodi, per assicurar le loro. E la tua gloriola o non nascerà o intisicherà appena nata.



XVII


Ma poi ti sentiresti d'accettarla codesta gloriola? Sai com'ella nasce. Nasce in generale dalla affermazione tua stessa. È pensiero giustissimo del nostro Leopardi: "La via forse più diretta di acquistar fama, è di affermare e con sicurezza e pertinacia, e in quanti più modi è possibile, di averla acquistata (30)." E altrove: "Rara è nel nostro secolo quella persona lodata generalmente, le cui lodi non siano cominciate dalla propria bocca... Chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando alla modestia (31)." E tu, fanciullo, vorresti che io da una seggiola o da un palco mi mettessi a gridar le tue lodi o affermare la tua fama? "Questo ragazzo è un ragazzo miracoloso... noto in tutto il mondo..." In questo modo la gloriola sarebbe facile. Ma tu no, non vorresti. Eppure gli uomini non crederanno mai che sia grande un merito che non sia tanto grande da vincere persino la modestia di colui che l'ha. Se la tua modestia è grande, contentati d'una grandezza assai modesta. Sarai considerato un poeta mediocre, e poiché mediocre non deve essere il poeta, sarai proclamato non poeta.
Ovvero tu, non credendo all'amara considerazione del Leopardi, aspetterai che la tua lode cominci dalle bocche altrui? Perché questa lode sia tale da crearti una vera fama occorre ch'ella possa propagarsi per gran numero di persone; le quali ti loderanno poi a lor volta senza conoscerti, senza averti udito, senza averti letto! Ti loderanno per "suggestione". Oh! il pessimo fatto che sarebbe allora il tuo! Tutto quel che tu facessi, sarebbe ugualmente lodato: ciò che tu sentissi d'aver fatto di meglio, sarebbe pareggiato a ciò che tu conoscessi d'aver fatto di peggio. Persino cosa che non avessi fatto tu, ma comparisse col tuo nome, sarebbe levata alle stelle, e così preferita a quelle che proprio tu avessi fatto e credessi buone e belle! E che ne faresti di tale gloriola?
Tanto più che bisogna vedere da che ti venne quella lode iniziale, che avviò tutte quell'altre lodi. Da che? Da qualche cosa più atta delle altre ad accecare, ad inebriare, a far delirare la gente. Dalla politica, per esempio: dal partito o dalla setta. Badaci, ragazzo. È il fatto di qualcuno che vuol procacciarsi la popolarità mettendo la cannella a una botte, e che tutti bevano. La gran botte è la politica, il vino che ognuno ne beve, è il proprio sentimento che si riscalda alla botte comune: la sbornia generale è la tua gloria!
O gloriola indegna del tuo desiderio! E poi è amara. Sai che siamo al tempo dei concorsi; al tempo delle classificazioni e premiazioni. Il divertimento più grande che si diano gli uomini, è quello di giudicare. In Atene fu in altri tempi una consimile mania di seder nell'Eliéa e deporre le sue pietruzze. Oggi non c'è più solo qualche pazzo, ma molti; e non giudicano, in mancanza d altro, i cani e i gatti di casa, ma gli scrittori e i poeti di casa e fuori. Giudicano e classificano: questo è il primo, quello il secondo, l'altro il terzo, e vai dicendo. Ahimè! tu fanciullo, fai il tuo discorsino, esprimi un tuo sentimento, esponi il tuo pensiero, mostri un tuo sorriso, versi una tua lagrima, senza riguardarti, senza saperlo, si può dire, senza perché; al primo venuto, sfogando il cuore, quasi fuori di te: a mezzo le tue parole, al tuo riso, al tuo pianto, ecco senti che il tuo uditore piglia appunti, pesa le frasi che dici, disegna, col pollice, in aria la linea del tuo sorriso, esamina l'acqua e il cristallo della tua lagrima; e mormora: "Non c'è male! Benino! Bene! Benissimo! Peggio però del tale! Anche meglio del tal altro! Primo! Secondo! Terzo! Poeta maggiore! Poeta minore!"
Certo tu, se non sei un vanarello o un frignone, cancelli il sorriso, ribevi la lagrima, e te ne vai. Forse giuri in quel momento di non andare più da altri, e godere o piangere tra te, un'altra volta. Ma sei fanciullo, e torni sempre da capo, trovando però ogni volta che per i fanciulli non c'è più luogo in questo mondo! Il fatto è che, oltre la noia di quel sentirti sempre paragonato, come se tu facessi un esercizio scolastico, puoi provare anche l'amarezza d'essere posposto, con giudizio spiccio o maligno, e anche d'essere preposto, a tali che tu non ti sogni nemmeno di emulare, a tali a cui tu non pensavi nemmeno, a cui non dovevi, non potevi pensare, assorto come eri nel tuo piacere o nel tuo dolore. Ti paragoneranno con gli altri e anche con te stesso. Ti conteranno gli anni e le rughe agli occhi, e i capelli bianchi, e non vedono l'ora di dirti che decadi, che rimbecillisci, che muori. Bella carità! E un bel giorno ti butteranno in un canto, dimenticandosi di te, e a torto. A torto sempre, perché ciò che hai fatto di buono, non deve essere annullato da ciò che poi faccia di men buono; e perché non può nascere mai un portento tale da far dimenticare quelli che prima di lui trovarono pur una mica di poesia. Sia grande quanto si voglia il poeta che si aggiunge al canone, egli deve sedere su una seggiola, o vogliam dire trono, sola: non ha bisogno di due o di tutte, e che un altro o tutti gli altri si rizzino e se ne vadano.
La gloriola non è per te fanciullo! La poesia pura, quando si legge, fa che il lettore volgare dica: Come si potrebbe far meglio e più! È vero che codesta è illusione d'ornatista... E io penso ai panforti fiorati che sono tanto più belli, e si contemplano così a lungo; ma finalmente gli ornati si gettano e si mangia il panforte solo. Tuttavia ricordati, anche per via di questo esempio fanciullesco del panforte fiorato, che generalmente si ammira e loda quel che sta sopra, non quello ch'è sotto. Ricordati che la poesia vera fa battere, se mai, il cuore, non mai le mani.



XVIII


Dunque... Ma intendo. Tu non aspiri alla gloriola, ma alla gloria; e così distingui, come se la gloriola fosse tra i vivi, e la gloria dopo morte. Non voglio dirti (le tue illusioni mi sono care), non voglio dirti che dopo morte non sentiremo nulla, di ciò che si dice di noi. Sentirò o almeno sentirai: non rabbuiarti. Ma sentirai belle cose? Qui sta il punto. Prima di tutto: diranno nulla? Si ha fretta, ai nostri giorni, di vivere; e le visite ai camposanti fanno perder tempo. Ci si assorda, ai nostri giorni, con la nostra vita; e non è possibile udire lo stridio leggiero delle ombre. I morti, ai nostri giorni, non contano più. Un poeta disse che il dì della morte era il dì della lode; ma il detto, pochi anni dopo che fu detto, non era più vero; e il Prati stesso lo sa, se nel sepolcro qualcosa si sa! E questo oblio che preme subito i morti, non è, quanto ai letterati, senza ragione e senza giustizia. Noi letterati vogliamo in vita occupar troppo il mondo di noi. Se stessimo nel nostro angolo, se non ci sbracciassimo tanto nel mezzo della gente, se non vociassimo tanto, non avverrebbe questo compenso di silenzio dopo morte. Dunque, diranno nulla di te? E se mai, diranno bene e giusto? O credi che allora sarà cessata la mania della classificazione, l'artifizio della suggestione, la cecità del partito e della setta?
Vedi: spesso i morti sono disturbati nel loro riposo, e tratti fuori per dare addosso ai vivi. Spessissimo. L'invidia sai in che forma si esercita per lo più. Tu dài a uno la debita lode in presenza d'alcuno. Questi conferma breve: poi a lungo si volta a lodare un altro, il quale può essere inferiore o superiore al tuo lodato, ma quasi sempre è morto. Ora tu, fanciullo, vorresti essere disseppellito a questo fine? Poiché sarai un'ombra, avresti piacere d'essere adoperato a far ombra a qualche buon fanciullo saldo, che viva e canti? Questo non ti piacerebbe: meglio dormire dimenticato. È meglio esser morto tutto, che continuare a comparire avanti i tribunali ad essere giudicato e classificato: tanto più, che i giudici si trasmettono, cursori che stanno eternamente fermi, le fiaccole de' loro giudizi.
Tu non vuoi giudizi: vuoi commozione, vuoi assenso, vuoi amore; e non per te, ma per la tua poesia. Ebbene morto che tu sia, se la tua voce fu pura, se fu la voce dell'anima e delle cose, non l'eco, o più fioca o più forte, d'altrui voce; ebbene codesta voce sarà inavvertita, quando non sia dimenticata. In vero se è spesso ripetuta, come forse è ragione, si fonderà col tempo, non so se nel silenzio o rumore circostante: come il cinguettio delle rondini sotto la tua grondaia, che quando è un pezzo che lo senti, non lo senti più...
Tu vuoi parlare? Aspetta: non ho finito. A ogni modo perché dovrebbe essere altrimenti? Che cosa fai tu, veramente, che sia degno di lode e di gloria? Tu ridi, tu piangi: che merito in ciò? Se credi d'averci merito, è segno che ridi e piangi apposta: se lo fai apposta, non è poesia la tua: se non è poesia, non hai diritto a lode. Tu scopri, s'è detto; non inventi; e ciò che scopri, c'era prima di te e ci sarà senza te. Vorresti scriverci il tuo nome su? Ti adiri, che ti vogliano giudicare e anche premiare per quello che non è se non la tua natura e la tua manifestazione di vita. Dunque che importa a te del nome?



XIX


IL FANCIULLO
Il nome? Il nome? L'anima io semino,
ciò ch'è di bianco dentro il nocciolo,
  che in terra si perde,
    ma nasce il bell'albero verde.

Non lauro e bronzo voglio; ma vivere;
e vita è il sangue, fiume che fluttua
  senz'altro rumore,
    che un battito, appena, del cuore.

Nei cuori, io voglio, resti un mio palpito,
senz'altro vanto che qual d'un brivido
  che trema su l'acque,
    fa il sasso che in fondo vi giacque.

Nell'aria, io voglio, resti un mio gemito:
se l'assiuolo geme voglio essere
  tra i salci del rio
    anch'io, nelle tenebre, anch'io.

Se le campane piangono piangono,
io nelle opache sere invisibile
  voglio essere accanto
    di quella che piange a quel pianto.

Io poco voglio; pur, molto: accendere
io su le tombe mute la lampada
  che irraggi e conforti
    la veglia dei poveri morti.

Io tutto voglio; pur, nulla: aggiungere
un punto ai mondi della Via Lattea,
  nel cielo infinito;
    dar nuova dolcezza al vagito.

Voglio la vita mia lasciar; pendula
ad ogni stelo, sopra ogni petalo,
  come una rugiada
    ch'esali dal sonno, e ricada

nella nostr'alba breve. Con l'iridi
di mille stille sue nel sole unico
  s'annulla e sublima...
    lasciando più vita di prima.



XX


Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono. La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz'essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società. Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo. I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l'amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome. Ché i nomi che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d'epigoni, d'ingegnosi ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto. Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s'inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto.
Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l'attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia. E fu male. E il male ingrossa sempre più. I poeti dei nostri tempi sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che è la loro persona. Non codesta quei primi. E tu, o fanciullo, vorresti fare quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi (32). È così? Sì.


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(1) PLATONE, Fedro, 77 E. E Cebes con un sorriso, "Come fossimo spauriti", disse, "o Socrate, prova di persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c'è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d'orchi."

(2) Che Femio sia vecchio, non si dichiara da Omero con parola espressa, ma indirettamente con l'epiteto periclytós (Odissea, 1, 325) comune all'altro aedo Demodoco (ibidem 8, 521 e al.), e specialmente con ciò che Femio stesso afferma di sé (ibidem 22, 347):

    Sono maestro a me io, ché un dio piantommi nel cuore
    Ogni ragione di canti...

Il che consuona con ciò che di lui dice Penelope (ibidem 1, 337 sg.):

    Femio, poi che sai molt'altre malie de le genti,
    Opere d'uomini e dei...

E il vecchio Femio con la canzone più nuova o più giovane (ibidem, 351 sg.):

    Poi che gli uomini pregiano ed amano più quel canto
    che il più nuovo all'intorno de li ascoltanti risuoni.

Quanto a Väinämöinen, ricordo da quel meraviglioso frammento di versione dovuto al mio P. E. Pavolini (Sul limitare, pp. 75 sg.):

    L'antico e verace Väinämöinen
    [...]
    Quindi l'antico Väinämöinen
    [...]
    quando udirono il nuovo canto,
    sentirono il dolce suono.

(3) OMERO, Odissea, 8, 499; phaîne d'aoidén.

Badiamo che io non intendo affermare l'etimo di aeidein da a privativo e vid- vedere. No: intendo asseverare che codesto etimo era presente agli antichi cantori. Si confrontino i due versi di Odissea, 1, 337 sg. che terminano il primo con oîdas e il secondo con aoidoì. Si mediti il 64 di 8: Degli occhi, sì, lo privò, ma gli dava la soave aoidén. Si ripensi l'espressione su riferita: mostrava l'aoidén.

Persino, oso dire, giova osservare, riguardo l'accecamento di Polifemo, mangiator d'uomini e bevitor di vino, che polyphemos, oltre a essere il nome del terribile Ciclope, è epiteto dell'aoidós Femio (22, 376), Phémios il cui nome somiglia del resto a quello di Polyphemos. E il Ciclope che mostra nella Odissea la sua musicalità solo quando (9, 315):

    egli con sufolo molto parava le pecore al monte,

musicalità che del resto è nel suo nome, se esso vale, come in 2, 150, "pieno di sussurri o di voci", il Ciclope è presso Teocrito un dolce cantor d'amore, e nessuno dei Ciclopi sa sonar la piva come lui (Teocrito, Id., 11).

(4) Ricordo che tutto porta a credere che la Comedia sia stata cominciata dal poeta nell'anno quadragesimo ottavo della sua età, o dopo. E quello è il poema della contemplazione, opposta alla vita attiva.

(5) Così in vero lo rappresentò il Manzoni con le Muse (bastava una) che l'accompagnano "la mal fida Con le destre vocali orma reggendo".

(6) Non solo i poeti moderni, così assolutamente fissati sull'amore e sulla donna, ma anche gli antichi poeti tragici e persino i poeti corali immediatamente successi alla poesia epica, si diedero a colorire l'elemento femminile ed erotico dei poemi omerici. E le donne designate e mentovate in essi poemi, non bastarono, e se ne crearono di nuove. Ciò accrebbe l'interesse drammatico del ciclo, ma segna in esso la diminuzione di essenza poetica. Così Orlando innamorato e furioso per amore è più drammatico ma meno poetico di Rolando nella Canzone.

(7) Augusto Conti narra di una sua bambina: "Quando mirava la luna o le stelle, metteva voci di gioia, e me le additava, e chiamavale come cose viventi; offrendo loro quel che avesse in mano, anche le vesti". Rivado col pensiero a tutte le poesie che ho lette: non ne trovo una più poesia di questa!

(8) Tale, p. es., è quello di Andromaca che piange su Ettore (II, 22, 510):

    Nudo, e sì che di vesti ce n'hai ne la casa riposte,
    Morbide e graziose, lavoro di mani di donne!

(9) PLATONE, Fedro, III B.

(10) CATONE, Agricoltura, 2, 7. Armenta delicula, oves deliculas. Traduco così, scostandomi dal Keil. Cfr. per il significato di armenta VIRGILIO, Georgiche, 3, 129.

(11) VARRONE, Rerum Rusticarum, 1, 17.

(12) VIRGILIO, ibidem, 3, 126 sgg.

(13) VIRGILIO, ibidem, 174 sgg.

(14) CATONE, Agricoltura, 58, e leggi 56 e 59.

(15) VIRGILIO, Eneide, 5, 284; è data, come premio a Sergesto, Foloe, una cretese, esperta nel tessere, con due gemellini alla poppa. Ed è imitazione di OMERO, Iliade, 23, 263. Anche è serva, in 9, 546, Licinna che diede al re dei Lidi un figlio, Eleonore. E anche questo è Omerico. Inoltre Andromaca partorisce servitio: Eneide, 3 327. E c'è l'idea e la parola di servitium a proposito di giovenchi in Georgiche, 3, 168, e di se stesso, cioè di Titiro, in Ecloghe, 1, 41.

(16) VIRGILIO, Eneide, 1 701 sgg. 705; 5, 391; 8, 411, 584.

(17) VIRGILIO, Ecloghe, 1, 28.

(18) VARRONE, Rerum Rusticarum, 1, 17 ipsi colunt, ut plerique pauperculi cum sua progenie.

(19) VIRGILIO, Georgiche, 2, 458 sgg.; 1, 300 sgg. e altrove.

(20) VIRGILIO, ibidem, 4, 125 sgg.

(21) VIRGILIO, ibidem, 2, 412 sgg.

(22) ORAZIO, Sermones, 2, 6, 1 sgg.

(23) PLATONE, Apologia di Socrate, 28 B. sgg. VIRGILIO, Georgiche, 1, 291 sgg.

(24) VIRGILIO, Eneide, 8, 155 sgg.

(25) SENECA, Ep., 122, II: cfr.Apoc. 2

(26) SENECA, Ep., 122, II. E continua a leggere il fattarello che segue.

    Montano avendo subito cominciato con un'alba: "Febo comincia a metter fuori le ardenti fiamme, e il dì rosseggiante a spargersi per la terra; e già la rondine triste comincia a recare ai garruli nidi il cibo, con assiduo va e vieni, e a somministrarlo bene scompartito col molle becco"; un tal Varo esclama: "È l'ora che Buta va a letto. Perché Buta era un fuggi-luce, un vivi-al-lume-di-lucerna, uno insomma, che faceva di notte giorno." Di lì a poco, Montano declamava "Già i pastori ricoverarono nella stalla i loro armenti; già la notte cominciava a dare il nero silenzio alle terre assopite." E Varo: "Che dice? È già notte. Andrò a fare la salutazione mattinale a Buta."

(27) ORAZIO, Arte poetica, 15 sgg.

(28) Avete un binocolo? Puntatelo verso una campagna, verso una casa, verso un borgo. Guardate per il suo verso: ecco la prosa. Guardate al contrario: ecco la poesia. Più particolari nella prima e meglio distinti. Più visione nella seconda e più... poesia. Provate!

(29) È superfluo aggiungere che per quanto non tutto nella Comedia sia poesia, e non tutta la poesia che v'è, sia pura, per altro quel poema è nella sua concezione generale il più "poetico" dei poemi che al mondo sono e saranno. Nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell'invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti.

(30) LEOPARDI, GIACOMO, Pensiero LX.

(31) LEOPARDI, GIACOMO, Pensiero XXIV.

(32) Il lettore ha già veduto da sé, né tuttavia è inutile che glielo faccia meglio notare io, che questi pensieri sulla poesia, più che una confessione, che a volte sarebbe orgogliosa e vanitosa, sono veri e propri moniti a me stesso, che sono ben lontano dal fare ciò che pur credo sia da fare!


 

EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Il fanciullino, di Giovanni Pascoli", Collana: Nuovi Materiali, saggi brevi di Franco Rella, a cura di Giorgio Agamben, Feltrinelli, 1982







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