Parafrasi - Opera Omnia >>  Giovanni Pascoli : « Canti di Castelvecchio »




 

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LE CIARAMELLE


Si sente in lontananza una ninna nanna accompagnata dal suono delle ciaramelle [strumenti musicali simili ad un oboe]. È una sera stellata, i lumi si accendono nelle capanne.

Dai monti avvolti dall'oscurità sono giunte senza preavviso le ciaramelle; hanno risvegliato nelle loro povere case tutte le persone gentili e sfortunate.

Tutti si alzano dal loro letto; accendono il lume appeso sotto una trave; lumi che illuminano a fatica la stanza e le facce assonnate dei suoi occupanti, che si muovono lentamente parlando a bassa voce.

Queste modeste lanterne illuminano tutt'intorno, dentro alle case, e un poco al di fuori, fino alla siepe: assomiglia il paese, avvolto nell'oscurità, ad un minuscolo presepe a grandezza naturale.

Nel cielo cristallino ogni stella sembra essere in attesa di qualcosa; ed ecco che giunge più forte il suone delle ciaramelle, come un canto di preghiera;

è come un canto ci si possa aspettare di ascoltare in chiesa, in un piccolo cortile, in una casa, attorno ad una culla, come il canto di una mamma, come il canto che consola quando [da bambini] si ci si preoccupava per cose di poco conto.

O ciaramelle, che fanno ripensare agli anni dell'infanzia, a chi [da adulto] è stato posto di fronte alla realtà della vita, ai veri problemi, adesso che le stelle stanno bellissime lassù, quasi come fossero depositarie del mistero della vita;

[ora che è mattina presto] quando ancora per un poco non di deve pensare a procurarsi da mangiare, e accendere il fuoco; prima che ricomincino le normali attività della giornata, lasciateci godere questo stato d'animo che commuove.

Non un piangere per niente, ma per un motivo, un vero motivo! Un pianto desiderato, che permetta di lenire le proprie pene, un palliativo per il dolore dentro di noi;

senza un apparente motivo si desidera piangere per le pene dell'età matura: sopra il proprio dolore, sopra il proprio piacere, si vuole tornare a piangere dolcemente come accadeva nell'infanzia.



IL GELSOMINO NOTTURNO


I gelsomini notturni (detti anche "belle di notte"), aprono i loro fiori al calar della sera quando il poeta rivolge il pensiero ai propri morti. Anche le farfalle del crepuscolo iniziano il loro volo nelle ore della notte tra i viburni (detti anche "palloni di neve", perché fiori bianchi di forma sferica).

Tutto tace: insieme alla notte è calato il silenzio: solo in una casa ancora si veglia: i rumori sommessi, che ne provengono, non turbano la pace notturna, paiono un bisbiglio di voci. Nel nido i piccoli dormono sotto le ali della madre.

Dai calici aperti dei fiori di gelsomino esala un profumo che fa pensare all'odore di fragole rosse. Mentre nella casa palpita ancora la vita e una luce splende nella sala, l'erba cresce sulle fosse dei morti.

Un'ape, che si è attardata nel volo, trova tutte occupate le cellette del suo alveare. La costellazione delle Pleiadi risplende nel cielo azzurro e il tremolio della sua luce richiama alla mente l'immagine di una piccola chioccia circondata dai suoi pulcini, intenti a pigolare.

Per tutta la notte esala il profumo dei gelsomini che il vento porta via con sé. La luce accesa nella casa sale su per la scala, brilla al primo piano e si spegne.

Al sopraggiungere dell'alba si chiudono i petali e il fiore "cova" "nell'urna molle e segreta" "non so che felicità nuova". [ Il poeta allude al germogliare di una nuova vita nel grembo della sposa, ora madre ].



LA MIA SERA


Durante il giorno ci furono molti lampi ma ora verranno le stelle, le silenziose stelle. Nei campi c'è un breve gre gre prodotto dalle rane. Una brezza leggera fa tremare, come un brivido di gioia, le foglie dei pioppi. Nel giorno, che lampi! Che scoppi! (Invece) che pace la sera!

Si cominciano a vedere le stelle nel cielo così tenero e dolce. Là, vicino alle allegre rane, un ruscello scorre producendo un gorgoglio simile ad un singhiozzare sempre uguale. Di tutto quel rumore violento, di tutta quell'impetuosa bufera, non resta che un dolce singhiozzo nella sera umida.

Quella tempesta che sembrava non finire mai, è terminata in un ruscello che ora produce un suono melodioso. Al posto dei fulmini restano delicate nuvolette colorate di porpora e d'oro. O dolore stanco, placati! La nuvola che durante il giorno appare più carica di tempesta è la stessa che vedo più rosa quando la sera sta per finire.

Che bello ammirare il volo delle rondini intorno! Che bello udire i rumori nell'aria serena! La fame patita durante il temporale rende la cena più lunga e festosa. La loro porzione di cibo, nonostante fosse così piccola, i rondinotti durante il giorno non l'ebbero per intero. Nemmeno io... e dopo le ansie e i dolori, mia limpida sera!

Don... Don... Le campane mi dicono, Dormi! Mi cantano, Dormi! Sussurrano, Dormi! Bisbigliano, Dormi! Là le voci del buio azzurro della notte... Mi sembrano canti di culla, che mi riportano all'infanzia... sentivo mia madre... poi nulla... sul far della sera.



LA CAVALLA STORNA


Nella Torre era già calata la notte. Si muovevano [per il vento] i Pioppi del Rio Salto. I cavalli normanni stavano ai loro posti, masticando la biada facendo rumore. Là in fondo c'era la cavalla, selvaggia, nata fra i pini sulla spiaggia salata; che nella criniera aveva ancora gli spruzzi dell'acqua e le urla nelle orecchie [i rumori del mare]. Sulla sua schiena mia madre aveva appoggiato il gomito e gli diceva a bassa voce:

"O cavallina, cavallina storna che portavi colui che non c'è più [il marito ucciso], tu obbedivi ai suoi gesti e alle sue parole. Egli ha lasciato un figlio piccolo, il primo di otto, e non è mai andato a cavallo. Tu che corri veloce, tu obbedisci alla sua piccola mano. Tu hai nel cuore la vegetazione marina, dai retta alla sua voce bambina."

La cavalla volse la sua testa magra verso mia madre che diceva sempre più a bassa voce:

"O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non c'è più, lo so che lo amavi veramente! Con lui in quell'istante c'eri solo tu e la morte. Tu che sei nata tra i boschi, le onde, il vento, nel tuo cuore spaventato, sentendo il laccio nella bocca che tiene il morso, corresti via. Con calma seguitasti per il tuo percorso perché morisse in pace."

La magra lunga testa era accanto al dolce viso di mia madre che piangeva.

"O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non c'è più... Oh! due cose egli avrà detto! E tu le hai capite, ma non le puoi dire. Tu con le briglie sciolte tra le zampe e negli occhi lo sparo, con negli orecchi l'eco del colpo, proseguivi la tua via tra i pioppi: lo riportavi a casa per il tramonto perché noi sentissimo quello che aveva da dire."

Stava ferma con la testa alzata. Mia madre gli abbracciò il collo:

"O cavallina, cavallina storna, riporta colui che non c'è più! A me, colui che mai più tornerà! Tu sei stata buona... ma non sai parlare! Tu non lo sai fare, poverina; altri che potrebbero non osano parlare. Oh! Ma tu devi dirmi una cosa! Tu l'hai visto l'uomo che l'ha ucciso, lui è ancora nei tuoi occhi. Chi è stato! Ti dico un nome. E tu fammi un cenno. Dio t'insegni a farlo."

Ora i cavalli non mangiavano: dormivano sognando la strada [il tragitto percorso in giornata], non calpestavano la paglia: dormivano sognando il rumore delle ruote. Mia madre alzò nella notte un dito e disse un nome... Risuonò un forte nitrito.






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